Il nuovo romanzo di Enrico Palandri, “L’inventore di se stesso” (Bompiani), è un tentativo di scrittura trasformativa della realtà, in base a traiettorie incoerenti perseguite fino in fondo, pur di rispondere alla domanda dei protagonisti maschili, padre e figlio, su cosa fare di ciò che ci arriva tramandato da lontano, con particolare riferimento alla nostra famiglia.

Tutto inizia al momento della nascita di un figlio maschio, con la pretesa (insopportabile) del nonno di dare al neonato il suo nome, Gregorio, legato a una storia enigmatica, prevaricando così la libera scelta di suo figlio Giorgio (il protagonista narratore) e di sua nuora Laura. Sono bellissime e assai poco didascaliche (al contrario di molti passaggi che esitano tra il trattato di filosofia e le note a margine) le pagine relative alla storia d’amore tra Gregorio e Sylvia (la madre di Giorgio), che si fanno notare per l’estrema delicatezza del racconto di quello che accadde nell’Inghilterra del 1953.

L’analisi verte su ciò che c’è di universale nei sentimenti umani, applicato a un caso reale. Gregorio, un brillante ricercatore italiano di lettere classiche, conquista sua moglie Silvia demolendo spietatamente in pubblico le opere letterarie del suo primo marito, ritenuto un grande autore inglese. Va a finire, a sorpresa, che lo stroncatore fa innamorare di sé la moglie dello stroncato! In filigrana, si nota un certo compiacimento di Palandri nel mettere in ridicolo le figure dei baroni inglesi, molto simili agli accademici nostrani nei loro congeniti difetti caratteriali. Gregorio, tuttavia, sfugge a questa attrazione fatale, risolvendo, a modo suo, la battaglia che si combatte in ognuno di noi, tra la realtà e la consapevolezza della storia, tra la nostra infanzia e la maturità. Giorgio all’inizio, rifugiandosi in campagna ad amministrare le proprietà del suocero, si ritrae dal mandato paterno di tramandare e mantenere alto il blasone di famiglia, vero o immaginario che sia. Con la nascita del figlio, però, tutto è rimesso in discussione.

E qui interviene la Storia grande (con la maiuscola), accanto a quella più personale di una famiglia antica e ingombrante che abbraccia la tradizione bizantina e ortodossa veneziana. Giorgio scopre la storia familiare e a un tempo la inventa assieme a suo padre, secondo una complicità straordinaria prima inesistente, non concedendo nessuna chiave al lettore per tracciare il discrimine tra il vero e il falso. Aiuta in questo la figura emblematica dell’avo Licudis, ambasciatore (sdentato?) di Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie.

In fondo, il ragionamento perseguito è: come lavorare sulle nostre radici per liberarsi da un passato paralizzante e reinventare noi stessi, facendo crescere una radice del tutto nuova che innovi sul passato, in proiezione del futuro? Ovvero: è possibile far sì che le biforcazioni successive, inevitabilmente condizionate da quelle precedenti, siano di rottura totale rispetto al passato stesso?

Ipotizzabile, certo, ma solo perché non esiste un criterio univoco per giudicare i fatti lontani che rimangono tali e immutabili, benché le loro verità e interpretazioni si modifichino (e, talvolta, si ribaltino) incessantemente nel tempo! Poiché è sempre vero che la Storia (ancora con la maiuscola) di tutti trascende quella familiare di ognuno e, quindi, è sempre più giusto ragionare pregiudizialmente sui destini collettivi, da dove proveniamo e all’interno dei quali esisteremo nel futuro.

Aggiornato il 17 novembre 2017 alle ore 08:42