Daniele Vicari, la dura vita dietro una canzonetta

Quinto film di finzione di Daniele Vicari, che lo ha scritto e diretto, “Sole cuore amore” è uscito nelle sale il 4 maggio, e ne parliamo proprio con il suo autore.

Qual è il centro del racconto?

E’ la storia di un’amicizia tra due donne trentenni, così forte da diventare quasi una sorellanza. Nella vita hanno fatto scelte molto diverse: Eli ha quattro figli e un marito disoccupato, per cui deve affrontare una quantità di lavoro straordinaria per poter mantenere la famiglia, trasferitasi fuori Roma - come molte altre - per spendere meno, e perciò, in più, lei spende ore e ore di viaggio al giorno come pendolare; Vale invece è una precaria dello spettacolo, e anche lei ha problemi di sussistenza. Sono l’una il “welfare” dell’altra, dei caratteri molto forti, persone determinate che si scontrano con la realtà molto dura nella quale viviamo un po’ tutti.

Una storia ispirata alla cronaca?

A vari episodi, purtroppo tutti molto simili. Mentre scrivevo il film, è morta Paola Clemente, una bracciante pugliese che si svegliava tutte le mattine alle 3, aveva tre figli e si è ritrovata in condizioni disperate. La sua vicenda fece emergere di nuovo quella di Isabella Viola, una donna di Roma che fu trovata morta dentro la metropolitana. Queste storie così tragiche ci raccontano, al di là dell’apparente normalità, condizioni di lavoro estreme, proprie della maggior parte della gente che vive nelle nostre grandi periferie. Sette milioni e mezzo di persone sotto la soglia della povertà significano la pauperizzazione di una fascia importante della popolazione. Da molti anni a questa parte, noto che le donne si sono caricate la società sulle spalle, e sperimentano un modo di relazionarsi, tra loro e con gli altri, che sta cambiando profondamente la nostra società. Trovo commovente la forza di moltissime di loro, che non soccombono alle difficoltà ma - con mille problemi, e pagandone anche le conseguenze - riescono a rendere la propria vita, e quella dei loro cari, più degna di essere vissuta. Il film è dedicato a queste persone meravigliose.

L’origine del progetto?

Nella scuola di cinema pubblica e gratuita “Gian Maria Volonté” - di cui sono direttore artistico - stavo tenendo un laboratorio, basato sull’improvvisazione, per gli allievi in procinto di diplomarsi. Abbiamo messo in scena giovani operai e operaie chiamati a colloquio dal nuovo proprietario della fabbrica in cui lavorano, e qualcuno di loro verrà licenziato. Questo ha sviluppato una emotività incredibile, i ragazzi si sono riconosciuti nei personaggi che stavano costruendo, e io stesso ho provato emozioni fortissime, al punto che ho cominciato a vedere in loro i volti di miei amici e compagni che sono rimasti lungamente senza lavoro, con gravi difficoltà. Così, finito il laboratorio ho pensato: “perché non scrivere un film su queste persone che conosco, dimenticate da dio e dagli uomini?”. Perciò la vicenda e il carattere di Eli sono quelli di mia sorella e mia cugina, Vale è ispirata alla danzatrice Miriam Abutori, tra le fondatrici dell’Accademia degli Artefatti, con la quale ho convissuto a lungo. Così, improvvisamente la sceneggiatura ha preso forma - ci ho messo un paio di giorni a scriverla, non mi era mai successo - tenendo sempre fermo il principio: “parla solo di ciò che sai e hai visto”.

Com’è il suo rapporto con gli attori e il vostro lavoro insieme?

Ho frequentato per due anni un laboratorio con Dario Fo, e in seguito con Peter Stein, per cui ho scoperto lo straordinario mondo interiore dell’attore, di cui mi sono innamorato, e quindi fin da quando ho cominciato a fare cinema ho stabilito, con chi recita, una relazione di forte complicità. Per me sono persone generose, perché si mettono a disposizione per trasmettere idee, emozioni, sensazioni, e non è facile: gli attori sono sempre sotto gli occhi di tutti, per questo nell’antica Grecia li consideravano alla stregua di eroi, trattati con tutti gli onori. Con loro ho sviluppato una mia attitudine al lavoro basata sulla condivisione, un modo di lavorare che poi è all’origine del desiderio, della necessità - che insieme a Valerio Mastandrea abbiamo provato - di fondare una scuola di cinema. Il lavoro con l’attore lo considero il 90 per cento dell’attività di regìa.

Il titolo?

Una domenica, in una trattoria, c’era una famiglia che stava festeggiando la prima comunione di una bambina. Ad un certo punto, la madre le ha detto: “cantaci una canzone”. Lei è salita sulla sedia e ha intonato “Tre parole” di Valeria Rossi e tutti si sono commossi, in particolare una cameriera; ho avuto la percezione che la donna piangesse perché costretta a lavorare di domenica, con i figli a casa. Questa scena è diventata il fulcro del film, e anche se la musica è un jazz composto da Stefano Di Battista e suonato da Enrico Rava e Fabrizio Bosso, è rimasto il titolo di questa canzone “pop” come contrappunto di un racconto che, con un andamento “blues”, parla di vicende molto dure, difficili, complesse, emotivamente forti, di persone che si scontrano con la mancanza di diritti sul lavoro.

Aggiornato il 15 maggio 2017 alle ore 20:26