Marco Baliani, “human” che si perde tra gli sbarchi

Per questa stagione, il viaggio dei migranti di “Human” termina a Roma (Teatro Argentina, fino al 14 maggio). Chiediamo dello spettacolo a Marco Baliani, che lo ha scritto e interpretato con Lella Costa insieme a quattro giovani attori e attrici.

Ce lo presenta?

È fatto di episodi diversi, come anche il linguaggio. Si comincia con un amore tra due persone che abitano alle parti opposte dello Stretto dei Dardanelli; è la storia di Ero e Leandro, lui nuota tutte le sere per raggiungere lei, ma un giorno lo coglie la tempesta e affoga. Allora improvvisamente, nello spettacolo - in cui fino a quel momento i due parlavano una lingua aulica, spiazzante - si sentono, al buio, le grida di quelli che in mare stanno morendo davvero. Ci sono poi tre pescatori, di ritorno, che avvistano un barcone di disperati e cominciano a litigare tra loro sul salvarli o no, perché sono carichi di pesce e perderebbero il lavoro, in più con la paura di rovesciarsi in acqua. Un attimo dopo, Lella mi chiede: “Ma si sono fermati, poi?”, e comincia una discussione tra me e lei sul senso della parola “umanità”, che dà il titolo all’opera; nella quale si passa dall’antichità alla cronaca contemporanea, tentando di mettere il dito nei nostri nervi scoperti, cioè quello che succede a noi occidentali quando arrivano i migranti, il senso di solidarietà che vacilla, l’umanità che si perde, il velato razzismo che c’è sempre.

Come ha avuto origine?

Due anni fa, all’Università a Bologna, ho tenuto una “lectio magistralis” sull’Eneide. Ne avevo scelto i pezzi che parlano di profughi, sbarchi, e nella lettura facevo un parallelo con la nostra quotidianità. È piaciuto molto, c’erano i Mismaonda che mi hanno proposto di realizzare uno spettacolo; loro avevano lavorato con Lella Costa, e allora mi hanno chiesto: “Perché non lo fai con lei?”. Con Lella ci conosciamo da tanti anni, non avevamo mai fatto qualcosa insieme, ho risposto: “proviamo” ed è venuto fuori “Human”.

Com’è stato il confronto con lei, dalla scrittura alla recitazione?

Ci mandavamo i pezzi scritti: uno cancellava, l’altro aggiungeva. Nel mio teatro, metà del testo si fa in scena, metà di ciò che hai scritto lo butti via perché ti accorgi che era bellissimo sulla pagina, ma poi in scena i corpi vogliono dire altro, e allora inventi nel momento in cui lo fai. Tra noi abbiamo collaborato sempre bene, lei è una bella persona e ognuno ascoltava l’altro, è stata bella come esperienza. Abbiamo tentato di toccare dei conflitti, dei nodi che ci riguardano, senza seguire troppo a ridosso gli avvenimenti della cronaca, che purtroppo sono proiettati in un futuro sempre più terribile, da quello che vedo.

Rispetto ai corpi in scena: c’è molto movimento?

Questo non è uno spettacolo dei miei. Qui ci sono movimenti, immagini, improvvisamente si compone il quadro di Caravaggio “Riposo durante la fuga in Egitto” per scoprire che anche Giuseppe e Maria erano profughi che scappavano; però non c’è tutto quel lavoro sui corpi che di solito ci si aspetta dal mio teatro, è un po’ più brechtiano, legato alla parola. Poi Lella fa anche delle incursioni soliste molto divertenti, per non cadere troppo nel tragico; ironizza sulla figura di una veneta piccolo borghese che dice razzisticamente tutto quello che pensano la maggior parte delle persone, tipo: “Io non sono contro i migranti, però se non ci fossero sarebbe meglio”, quel modo di ragionare del buonsenso terribile. Questo allevia un po’, in certi momenti fa anche sorridere e ridere.

A proposito di Caravaggio, l’uso delle luci ricorda la sua pittura, e nei costumi c’è un rosso predominante.

Quello di scene e costumi è il lavoro di Antonio Marras, con stracci veri recuperati a cui ha dato una tinta di fondo rosso mattone. Credo che volesse rendere il senso dell’Africa, con colori forti però sbiaditi dal tempo, passati attraverso corpi e poi raccolti. Anche le balle su cui ci sediamo sono fatte di vestiti, poi c’è la scena finale in cui io divento un cinico becchino e sulla spiaggia raccolgo abiti abbandonati da quelli che sono arrivati, per rivenderli. È il momento più amaro dello spettacolo. Non se ne esce rincuorati, ma con un pugno allo stomaco. È molto forte, il pubblico ci ringrazia, però il colpo arriva.

Ci sono poi le musiche originali di Paolo Fresu e Gianluca Petrella.

Due carissimi amici che hanno accettato subito. Sono artisti di grande valore, con Paolo avevo già lavorato in Africa col “Pinocchio nero”, e come sempre le sue musiche sono perfette; è una persona che vede cosa stai facendo e drammaturgicamente crea la musica giusta.

C’è anche la produzione di Sardegna Teatro, e tre attori sono sardi. Com’è nata questa sinergia?

In Sardegna, un anno prima, ho tenuto un laboratorio con venticinque giovani; per lo spettacolo ne ho selezionati quattro, uno non poteva e l’ho sostituito con David Marzi, che aveva già lavorato con me. Sono artisti non alle prime armi, e finora abbiamo fatto circa 120 repliche, è stato un bel “tour” che si chiude a Roma. Riprenderemo lo spettacolo, a febbraio e marzo del prossimo anno, dove non siamo già stati.

Aggiornato il 10 maggio 2017 alle ore 18:51