La “buona scuola” di Vittorino da Feltre

Il governo guidato da Matteo Renzi aveva intrapreso un’attivissima propaganda sui social network, con il proposito di far colpo sui giovani, coniando slogan attraverso cui raccogliere consenso sui provvedimenti promossi dall’esecutivo. Uno di questi, la “buona scuola”, ha riguardato la riforma dell’ordinamento scolastico, e l’etichetta pubblicitaria sembrava sottintendere che si trattasse di una vera svolta nel settore. In realtà, non vi è stata alcuna rivoluzione, ma si è andati ancor più veloci, se possibile, nel deterioramento di un’istituzione che già da tempo ha abdicato alla sua missione formativa di donne e uomini liberi. La scuola, oggi, è una macchina dispensatrice di vuote nozioni, che ha come unico scopo di spegnere le menti e perpetuare lo stato di cose esistente.

L’alto compito della scuola sta nell’educazione delle nuove generazioni, i nuovi “barbari” che vanno disciplinati e addestrati a pensare con la propria testa, affinché acquisiscano una coscienza critica. Furono queste, del resto, le speranze che sul cadere del ’300 generarono proprio in Italia il grande rinnovamento degli studi, di cui Vittorino da Feltre fu eminente figura.

Nato a Feltre (BL) nel 1378 da un’umile famiglia di nobili origini, dimostrò fin da giovanissimo di avere una mente aperta e un’insaziabile fame di apprendere. Compì i primi studi nella città natale, con grandi difficoltà, per la povertà del padre. A Padova frequentò la prestigiosa Università e per sopperire alle proprie mancanze iniziò ad insegnare grammatica. Subì l’influsso di Pier Paolo Vergerio, il primo pedagogo della nuova epoca.

Era tenuto in grande stima e venerazione, non solo per la sua cultura, ma per l’integrità e coerenza dei costumi; il vescovo Giovanni Andrea de’ Bussi, che fu suo discepolo, lo definì un “Socrate del nostro tempo”.

La cultura languente della scolastica medievale, colma di tecnicismi e sottigliezze retoriche, pareva inaridire ogni possibilità umana: la ripetizione meccanica di formule, unita alla trascuratezza del corpo, aveva reso gli scolari fiacchi e appesantiti, sotto l’apparenza di un ascetismo che in realtà nascondeva le più vili concessioni alla carne.

Il rinnovamento della cultura era iniziato nella seconda metà del ’200, nel circolo padovano che faceva capo a Lovato de’ Lovati e Albertino Mussato, ed aveva preso le mosse da quell’arte dionisiaca per eccellenza che è la poesia classica – celebrazione della vita e dell’amore – portatrice di nuova libertà. Non che il Medioevo avesse ignorato gli autori antichi, poeti e filosofi; se ne era servito, tuttavia, per i suoi scopi di giustificazione ed esaltazione della fede, allo stesso modo in cui le colonne dei templi pagani venivano “riciclate” per l’edificazione delle nuove chiese.

Lo studio degli antichi, del resto, nel nuovo clima rinascimentale, non si limitava all’acquisizione di nozioni o all’imitazione pedissequa dello stile. Negli antichi non si ricercava una verità già data, per accettare astrattamente un sapere chiuso e concluso, ma un’esperienza esemplare che educava, a sua volta, ad intraprendere una propria indagine.

Ai rigori dell’aristotelismo, la nuova cultura volle opporre la rappresentazione di miti e modelli capaci di suscitare desiderio di imitazione. L’esercizio fisico, il libero gioco, la familiarità con i classici si alternavano ad un contatto diretto con la natura; i libri non contenevano pagine morte, ma narravano le gesta di uomini insigni cui gli scolari dovevano guardare per farsi simili a loro (e degni di loro). Imitazione che non fu passiva ripetizione, almeno alle origini, ma consapevolezza del valore ideale dell’evocazione di un’umanità più grande e gloriosa. Il motivo dominante sarà la difesa degli studi “liberali”, degli studi che rendono l’uomo libero.

Caratteristica della nuova educazione umanistica fu inoltre la preoccupazione “politica”, l’esigenza di formare uomini che fossero innanzitutto buoni cittadini nelle libere repubbliche.

Quando Guarino Veronese, altro illustre educatore, di ritorno da Costantinopoli, aprì una scuola di greco a Venezia, Vittorino vi si recò, e fu proprio là che ebbe inizio la sua carriera di maestro. Tenne a sua volta scuola a Venezia per qualche anno e fu molto apprezzato. Tornò così a Padova con una notevole fama e aprì una scuola-convitto per i giovani che abitavano lontano dalla città.

Nel 1423 accettò l’invito di Gian Francesco Gonzaga, primo marchese di Mantova, “principe illustre per altezza d’animo e per fortuna”, che gli offrì l’incarico di precettore dei suoi figli. In una villa che il Gonzaga gli mise a disposizione, istituì la prima scuola realizzatrice degli ideali umanistici, cui diede il nome di Ca’ Zoiosa (Casa Gioiosa), dove l’esercizio intellettuale si alternava alle pratiche ginniche. La sua fama si era sparsa a tal punto che accorsero giovani da tutta Europa; molti uomini dottissimi, tra cui il Filelfo e il Guarino, mandarono a Vittorino i loro figli. Scrisse di lui Francesco Prendilacqua: “Nessuno respinge da sé, fornisce a tutti il bastevole; da ogni parte raccoglie libri, ne fa lettura; i poveri ed i facoltosi tratta egualmente; e quelli nutrisce col denaro che riceve da questi”. Ricorreva spesso alla munificenza del principe e alla generosità di ricchi cittadini per sostenere le spese della scuola e i discepoli bisognosi.

L’insegnamento si basava ancora sulle arti del trivio e del quadrivio, ma in una prospettiva nuova; al termine del percorso, Vittorino giudicava gli allievi idonei alla filosofia e li avviava allo studio di Platone e Aristotele. “Solo allora – scrisse Sassolo da Prato, suo discepolo – li lasciava allontanare da sé, affermando che essi, a qualunque disciplina fossero per dedicarsi, medicina, diritto o teologia, raggiungerebbero quella perfezione che si proponessero”.

Gli svaghi non mancavano, ma non mancava neppure una rigida disciplina: Vittorino, infatti, si preoccupò di formare non solo giovani eruditi, ma soprattutto anime rette ed integre, per cui aggiungeva alla preparazione scolastica, in cui era coadiuvato da maestri scelti da lui stesso, un’intensa pratica religiosa.

Affermatasi nei liberi comuni italiani, la nuova cultura aveva avuto come principale obbiettivo il risveglio di una coscienza civica e l’educazione dei giovani alla partecipazione politica; ma dinnanzi alla trasformazione delle città in signorie e in principati ereditari – precursori delle monarchie assolute – essa patisce un adattamento nefasto. Pochi, ora, sono destinati alla vita politica attiva: i reggitori e i loro ministri, i “cortigiani”. Permangono le forme, svuotate di ogni finalità educativa di una personalità libera: la cultura serve ora come tecnica per apparire abili, garbati e raffinati. La società tende a congelarsi in rapporti definiti e il gioco politico e diplomatico è l’orizzonte ultimo del nuovo mondo. Prevalgono l’ipocrisia delle buone maniere e la nuova pedanteria negli studi.

Si apre la modernità.

Aggiornato il 05 maggio 2017 alle ore 21:09