Armored philosophy. O, come dire, the combacting philosophy: una modalità inedita e complessa, apparentemente arida del pensiero, in cui le persone non sono altro che coscienze sospese al filo dell’egoismo.

Questa, in sintesi, è anche la sostanza profonda del film franco-tedesco ”Le cose che verranno” (nelle sale dal 20 aprile), diretto da Mia Hansen-Løve, con Isabelle Huppert nella parte di Nathalie, insegnante di filosofia in un liceo parigino. Un’esistenza al femminile devoluta a un combattimento senza tregua e quartiere che si riveste della corazza impenetrabile di Achille, che vuole dimenticare il suo tallone esposto perché le ricorda la natura mortale del semidio che è in lei. Il film narra di spericolati fuoripista lungo i sentieri della dialettica, infestati dalle radici sporgenti del sottobosco che provocano dossi e un calvario di sussulti in chi guida e nei suoi passeggeri. Le tempeste esistenziali sono potenziali veicoli di violente passioni, ma Nathalie le imprigiona all’interno del suo sarcofago di vergine di ferro, che può lasciare in vita solo chi ha la forza di impedirle di richiudersi in se stessa, evitando così una fine dolorosa per i suoi incauti ospiti, attirati come le falene dalla luce del suo fascino irresistibile di odalisca dalle belle lettere. Lei, incrollabile, impedirà alle lacrime di consumare il loro percorso di sollievo ed espiazione e farà di un simbolo della iattura, una gatta nera un po’ obesa, l’ancora di salvezza del suo cuore solitario e indurito. Ex sessantottarda senza più illusioni, Nathalie azzera i vagiti di una rinascente, quanto inutile protesta studentesca, con un cipiglio da sergente maggiore che fa l’appello di giornata per ordinare in fila le sue reclute. Ma la sua vita è un castello sotto assedio, affamato fino allo sfinimento nei suoi affetti e nel suo narcisismo intellettuale; entrambi messi a dura prova da un lato dagli amori fedifraghi di un tradimento coniugale che spezzerà (senza ritorno per decisione di colei che è stata tradita) un percorso comune durato un quarto di secolo. L’altra assediante, la più pericolosa e peggiore di tutti, è rappresentata da una madre totalmente riflessiva nella paranoia del suo vissuto alterato di femme fatale che non ha saputo trattenere quasi nulla dei suoi tre matrimoni. Tranne quell’unica figlia, messa fuori dal suo ventre un po’ per caso ma che, nel progredire della sua demenza senile, vorrebbe a tutti i costi far tornare nel proprio utero, afferrandola con gli artigli della paura della morte, dell’autodistruzione che copre il vuoto terribile di un’esistenza finita nel nulla.

Un materno, cioè, senza un indirizzo noto dove potersi rifugiare per chiedere affetto e consolazione. Seppellito finalmente con l’accompagnamento di un caos calmo, in cui solo un’orazione funebre scoprirà qualche tratto autobiografico della defunta, illustrato da un’impassibile Huppert al celebrante in una sorta di intervista post mortem. Ma anche la fine del suo matrimonio si svolge senza il minimo dramma: la fiera professoressa Nathalie si confronta con assoluta indifferenza, senza dire una sola parola, a una rivale ignota e vincente. Come una sorta di pratica burocratica. Senza liti e senza nessuna possibilità di ritorno, pur tentata da lui con la sorpresa di un mazzo di rose lasciate sul tavolo e terminate ingloriosamente, con una semplice smorfia di disgusto, nella poubelle casalinga. La corazza di Nathalie resterà indenne anche quando il suo pilastro intellettuale, costituito dalla collana colta della philò da lei diretta, affonderà nelle sabbie mobili della mancata redditività economica e commerciale, così decretata da una coppia di american boys tanto ignoranti quanto spietati.

E se tutto crolla attorno a Nathalie, rimangono intatte le sue granitiche certezze, l’illimitata fiducia in se stessa, che la condurrà ben oltre l’ennesima delusione per il suo bellissimo e geniale studente che sceglie l’amore illusorio e spietato di un’universalità anarchica, che si agita in un vuoto ricolmo soltanto di parole colte, avulse dalla pratica quotidiana. La scena di chiusura ci chiarirà come questa sconcertante protagonista scelga la redenzione della carnalità, in cui lei, donna matura e con i piedi ben piantati a terra, si farà carico con grande naturalezza della sua famiglia nuova e giovane: quella costituita dai propri figli e nipoti. Per dire: morte e resurrezione sono sempre e soltanto all’interno di noi stessi!

(*) Trailer ufficiale

Aggiornato il 08 novembre 2017 alle ore 14:09