“Il viaggio di Enea”, umanità in movimento

Una narrazione senza tempo che diventa anche un modo per ripercorrere la propria storia familiare, e soprattutto guardare avanti. Il Teatro Argentina ospita lo spettacolo “Il viaggio di Enea” (dal 26 aprile al 7 maggio) del drammaturgo canadese Olivier Kemeid, scritto a partire dall’”Eneide” di Virgilio e adattato e diretto da Emanuela Giordano con undici attori e attrici in scena. E proprio alla regista chiediamo di parlarcene.

Ce lo presenta?

È il racconto di un uomo sconfitto, che viene da lontano, in cerca di un luogo di pace, così come ci è stato tramandato da Virgilio. Kemeid, autore canadese di origini nordafricane di questa nuova versione del viaggio di Enea, sui banchi di scuola ha capito che è pure la vicenda della sua famiglia, migrata dal Libano all’Egitto, poi fuggita a metà dell’Ottocento a Napoli, quindi a Le Havre e infine in Québec. Ma è anche la storia del contemporaneo, di questo periodo di esodo biblico che sicuramente cambierà i destini dell’Europa, del mondo, e su cui non possiamo omettere pensieri, riflessioni che vadano al di là delle polemiche politiche e dei bassi interessi.

Quella di Kemeid è stata anche una ricerca delle proprie radici?

Non necessariamente, perché guarda al futuro così come Enea era rivolto alla fondazione di Roma. Il suo testo non è tanto una dedica alle proprie radici quanto a un pensiero alto, dinamico, sul concetto di viaggio dell’umanità. Ed è bello per questo, perché parla di amicizia, amore, guerra, ma è sempre legato al destino di un uomo che deve fuggire dal suo Paese perché – e può succedere a chiunque di noi – si trova da un momento all’altro senza tutto ciò che aveva fino ad allora. Perciò è una dinamica verso il domani, più che rivolta all’indietro. Certamente Enea è l’eroe del sé responsabile, quindi tiene in braccio il figlio che rappresenta il futuro e sulle spalle il padre che è il proprio passato; e questa è la sua caratteristica originalissima, di grande icona eroica rivolta in avanti: la salvezza del figlio Ascanio è il motore della drammaturgia e dell’epica. Noi abbiamo fatto un lavoro sincretico tra epica e contemporaneo, saltando l’antico e il moderno riscopriamo le nostre radici di umanità in viaggio.

Quindi la migrazione come tema costante, senza tempo?

Da che mondo è mondo è un continuo spostamento: quello di ebrei, armeni, caucasici, iracheni, nordafricani, mediorientali. Stiamo parlando della cultura dell’umanità, che è fatta di passaggi e di fughe, per siccità, guerre, fame; nel bene e nel male è il motore del mondo, perché il mischiarsi delle razze costruisce uomini belli, forti e aperti, e comprende anche tutto il dolore e la complicazione di questo. “Il viaggio di Enea” è un testo potentissimo, perché parla della necessità e della naturale tendenza dell’uomo a salvare la propria vita e quella dei propri cari. La domanda che noi facciamo nello spettacolo è: “Immagina che succeda a te. Un notte sei andato a una festa, magari hai bevuto, ti addormenti e una palla di fuoco entra dalla finestra nella tua stanza, fai appena in tempo a saltare giù dal letto che le fiamme prendono lenzuola, materasso, coperte. Che fai?”.

Per l’allestimento e la regia c’è stato un confronto con l’autore?

L’interazione con Kemeid spero potrà essere buona, perché finora non abbiamo avuto modo di parlare, ma io ho avuto bisogno di portare in scena la modernità del nostro Paese e anche Virgilio. Quindi c’è stato un adattamento necessario per far vivere i corpi in scena, però insomma la storia è quella di Olivier.

Rispetto al linguaggio del testo originale e alla traduzione c’è stata anche una valorizzazione dei versi di Virgilio?

Sperando che Kemeid apprezzi, non potevo fare altrimenti, siamo a Roma e la fondazione della città ricorre proprio in questi giorni: sì, c’è stata una valorizzazione dell’Eneide, perché ci sono degli inserimenti che ho fatto del testo di Virgilio utilizzando come fonte alcuni versi interamente ritradotti in maniera contemporanea, quindi senza compiacimenti e svolazzi.

Il rapporto con gli attori?

Molto forte e sofferto, perché tocchiamo temi delicatissimi, quindi dobbiamo evitare qualsiasi enfasi e grido esagerato. È stato bellissimo perché comunque mi hanno seguito, ci hanno creduto tutti, anche i più giovani. Siamo in undici in scena, perciò è uno spettacolo grande, importante, fisico, pieno di energia perché, sì, parla di guerra e di morte, ma cercando di salvare la pelle, la propria dignità.

È presente anche un coro: la sua funzione è come quella nel teatro antico?

No, è integrata nel racconto, come se fosse continuamente una sollecitazione a ricordare; si inserisce tipo un’orchestrazione.

All’estero lo spettacolo era già stato allestito?

Non so, però sicuramente in Italia è una vera “prima”.

Dopo Roma?

Innanzitutto abbiamo debuttato in allestimento a Pordenone, quindi andremo a Milano al Teatro Carcano, e poi probabilmente a un grande festival, ma non posso ancora dire quale perché dobbiamo fare i sopralluoghi per capire se lo spettacolo si possa collocare in uno spazio all’aperto.

(*) Foto di Luca d’Agostino

(**) Per informazioni e biglietti: Teatro di Roma

Aggiornato il 08 novembre 2017 alle ore 13:42