“Un Altro me”: un film, un percorso

venerdì 14 aprile 2017


Un progetto-pilota di rieducazione su detenuti per crimini di violenza sessuale: lo racconta il documentario “Un Altro me” di Claudio Casazza, una produzione Graffiti Doc (della regista Enrica Capra) in collaborazione con il Mibact - ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo, oltre che con il Piemonte Doc Film Fund. Dopo vari riscontri in festival e rassegne, l’opera è uscita nei cinema giovedì 13 aprile, distribuita dall’indipendente Lab 80. Ne parliamo con l’autore.

Come ci presenta “Un Altro me”?

Il film racconta un trattamento criminologico-psicologico nel carcere di Bollate a Milano, unico penitenziario in Italia a fare questo tipo di lavoro su autori di reati sessuali. È un documentario di osservazione, che per un anno ha ripreso l’evoluzione di quegli incontri con - diciamo così - la “presa di coscienza” di quei soggetti, in linea generale, su ciò che hanno fatto, perché molto spesso non pensano che la colpa sia la loro ma la vanno a scaricare sulla vittima. Di conseguenza, con questo trattamento l’impegno che portano avanti su di sé è appunto quello della comprensione di quanto hanno compiuto, del reato commesso, dell’esistenza di una vittima. L’obiettivo è che tornino degli esseri umani, e soprattutto che fuori, di vittime, non ce ne siano più.

Un elemento importante negli incontri ripresi dal film è la presenza anche di operatrici e di una donna che ha subìto violenza sessuale.

Il trattamento è curato da criminologi e psicologi che, “step by step”, svolgono il lavoro attraverso le lettere delle vittime e il racconto dei reati da parte dei detenuti, perché molto spesso, con l’ascolto dell’altro, si arriva a comprendere ciò che si è fatto; in ultima istanza, questo è successo anche con la presenza di una vittima che, per la prima volta quando l’ho ripresa io, è andata in carcere per raccontare quello che ha subìto. Attraverso l’ascolto delle testimonianze di altri, e soprattutto di una vittima, queste persone riescono ancora di più a capire. Nel film, il momento con quella donna è uno dei più forti, dolorosi, ma è anche uno di quelli che più ha portato a un maggiore livello di consapevolezza.

Per questa piaga, il problema è soprattutto sociale/culturale: nei vari racconti ascoltati, le ragazze sessualmente libere vengono definite “puttanelle da discoteca”, e la donna provocante è ritenuta corresponsabile della violenza successiva ai suoi danni.

Certo, quelle sono parole che i detenuti hanno usato, inizialmente, perché poi c’è stato un loro percorso di comprensione. È quello che pensano molti uomini sulle donne, di conseguenza credo sia proprio qualcosa di insito nella società. Appunto per questo, il trattamento che fanno questi psicologi e criminologi sui detenuti è molto importante.

Come le è venuta l’idea di questo documentario?

Quasi casualmente, perché ho conosciuto il criminologo a capo di questo progetto, il quale mi ha invitato in carcere per uno degli incontri pubblici che si tengono lì, aperti a persone esterne, invitate tra quelle esperte della materia o comunque interessate. Assistendo a questo incontro generale, di fine percorso, mi sono accorto che tale attività era molto importante, e piena di materiale umano. Di conseguenza, mi sono interessato, e grazie a loro che ci lavoravano siamo riusciti a ottenere i permessi per girare in carcere. Una volta dentro, ho cercato un approccio il più aperto possibile, ad esempio non ho voluto sapere che tipo di reati avevano commesso i detenuti, per cercare di mantenere una certa distanza - oltre a non entrare nel pregiudizio che molto spesso abbiamo noi come società, anche giustamente, verso chi commette questi reati - e comunque anche per stabilire un rapporto di fiducia con loro. E quindi ho scoperto ciò che hanno fatto solo quando lo raccontavano, poco a poco, mentre si andava avanti nel percorso. Questo credo che mi abbia permesso di avere un tipo di criterio libero per fare il film: ho ripreso un anno di trattamento, e quello che ne esce fuori è ciò che ho filmato, senza interventi esterni, interviste, commenti o qualcosa che potesse dare una sottolineatura “altra”.

Che impressioni le ha lasciato la lavorazione del film, frequentando quella situazione?

Guardiamo le statistiche: l’80-90 per cento delle persone che escono dal carcere rifanno ciò per cui erano finite dentro. Quando invece lavorano su di sé, io ho visto dei movimenti, dei cambiamenti e di conseguenza sono convinto che questo vada fatto. Per alcuni può valere un anno, per altri è necessario continuarlo anche quando escono, ma è ciò che poi aiuta loro e la società.

(*) Trailer ufficiale


di Federico Raponi