Un esordio riuscito per Thomas Kruithof

mercoledì 12 aprile 2017


Un uomo ordinario coinvolto in una macchinazione è il tema cardine dell’opera prima del belga Thomas Kruithof, in sala in Italia dallo scorso 6 aprile. Presentato al Torino Film Festival 2016, “La meccanica delle ombre” è un thriller paranoico in pieno stile anni Settanta, soffocante, anche per via della scenografia, dominata da spazi chiusi e sfumature fredde e claustrofobiche, e ritmata dal picchiettare delle dita del protagonista sulla vecchia macchina da scrivere.

Complessivamente un esordio appassionante.

François Cluzet incarna i panni di Duval, un contabile preciso e scrupoloso con il vizio dell’alcool, che contribuisce a provocargli un esaurimento nervoso. Due anni dopo, uscito dal tunnel della “bottiglia” e assiduo frequentatore di incontri per ex alcolisti, Duval è un cinquantenne mite che ha bisogno di reinserirsi nel mondo del lavoro per ritrovare quella dignità che sente di avere smarrito. Chiamato a tarda sera da uno sconosciuto, si presenta l’indomani ad un colloquio nel quartiere parigino della Défense: di fronte a lui Clément, un uomo elegante, impegnato e di poche parole che lo ingaggia per un lavoro apparentemente semplice, ma da eseguire con massimo rigore ed estrema precisione. Duval viene assunto per trascrivere intercettazioni con una macchina da scrivere in un appartamento della periferia parigina. Deve arrivare alle 9 e andarsene alle 18 in punto. Niente ritardi, niente straordinari. Tutti i giorni la medesima routine: Duval non deve destare sospetti, è chiamato ad aprire le tende all’arrivo e richiuderle a fine giornata, a non uscire mai nelle ore lavorative, a non fumare o fornire spiegazioni. La paga è eccellente, 6mila euro netti al mese. Duval, dopo due anni di mancato impiego accetta senza farsi troppe domande. Parallelamente, attraverso la frequentazione del gruppo di ex alcolisti, incontra l’infermiera Alba Rohrwacher. Ed è proprio una sera che si trova con lei in un locale che scorge sul quotidiano del mattino la notizia dell’omicidio di un uomo e di sua moglie. Si tratta dello stesso uomo citato nelle intercettazioni che aveva trascritto il giorno prima. È così che Duval si accorge ben presto di essere entrato in un ingranaggio infernale – fatto di un ministro, un candidato alla presidenza, un mediatore per la liberazione di ostaggi rapiti dai terroristi islamici, un avvocato, dei taccuini compromettenti, e varie anime dei servizi segreti – dal quale tentare, a ogni costo, di sottrarsi per non venire triturato.

Duval è un personaggio archetipico del genere caro ad Alfred Hitchcock e certamente gli spunti a una sceneggiatura che non brilla per originalità vanno rinvenuti anche nella cinematografia hollywoodiana degli anni Settanta de “I tre giorni del Condor” (Sydney Pollack, 1975). Molto lontano dall’action movie, la riuscita di quest’opera prima, caratterizzata dalla giusta dose di ansia e una grande prova attoriale di François Cluzet (il tetraplegico di “Quasi amici”), poggia probabilmente proprio sull’inadeguatezza del personaggio, fisica e mentale, che non riesce ad uscire dal suo tracciato da pedina. Nonostante logiche doppio e triplo-giochiste, il gioco resta pur sempre più grande di lui.

Buono il ritmo del film, di un’ora e mezzo. Un po’ banale l’epilogo, molto “americano”. Ottima l’impostazione realistico-empatica che offre allo spettatore una dimensione intima e umana di una persona normale sbalzata di fronte a dinamiche oscure e perverse molto più grandi di lui. Un tentativo interessante di rappresentare la situazione politica francese attuale, ben più che chiaroscurale.


di Elena D’Alessandri