Munzi e gli strascichi dell’“Assalto al cielo”

È partito giovedì 6 aprile il “tour” italiano di “Assalto al cielo”, con proiezioni alla presenza del regista Francesco Munzi (già autore di “Anime nere”, David di Donatello per miglior sceneggiatura, regìa e film) e la possibilità di momenti di confronto. Per permettere al nostro passato di qualche decennio fa di mostrarsi e parlarci, il documentario è tutto basato su filmati dell’epoca. Rivolgiamo alcune domande a Munzi, così da capirne meglio il punto di vista.

Ci spiega l’operazione?

È un film di montaggio puro, ho voluto affrontare gli anni Settanta attraverso la scelta tematica del tentativo della rivoluzione, raccontato - allora - da chi l’ha vissuto. Quindi è un lavoro d’archivio, senza voce fuori campo, ogni sequenza cade sull’altra, non ci sono “leader” conosciuti e copre il periodo che va dal 1967 - un anno prima dello scoppio della rivolta mondiale - al 1977.

Com’è partito il progetto?

Allora avevo pochi anni, quindi sono sempre rimasto un pochino turbato, ma anche molto interessato a quell’epoca. Volevo un rapporto diretto, che andasse oltre i racconti, la letteratura, il cinema di finzione, offrendo allo spettatore del materiale dove poter fare il proprio viaggio. E avere, così, anche una mia impressione, senza mediazioni.

La scelta dei filmati rappresenta già una prospettiva autoriale. In tal senso, cosa e dove ha voluto cercare?

Il punto di vista neutro è impossibile, ho fatto delle scelte di montaggio attingendo a più archivi, quasi tutti quelli disponibili: Rai Teche, Archivio del Movimento Operaio e Democratico, Istituto Luce, Cineteca di Bologna e privati. Ho cercato materiale che fosse girato internamente, da persone che erano nel Movimento, evitando quello più istituzionale e freddo, tentando poi di estrapolarne le sequenze più lunghe, in modo da poter dare anche la sensazione di stare lì. Era come un puzzle, e io ho seguito un sentimento; infatti il film è diviso in tre movimenti diversi: quello dove si racconta un primo momento unitario, di grande forza, vitalità e slancio, che poi lascia il passo a un secondo, più di tensione e scontro, e infine porta a un terzo, di frantumazione e dissoluzione. È fondamentale sapercisi muovere dentro, perché l’importanza di quel periodo esce fuori e va goduta con tutta la sua forza. È anche una riflessione per l’oggi.

La ricerca e la fruizione di questo materiale le ha suscitato qualcosa?

Tanti ragionamenti. Vedere qualcosa o sentirsela raccontare è completamente diverso. In ogni caso, qualsiasi spettatore ha una percezione differente, e comunque la visione di chi filmava non è troppo mitica, anzi a volte anche abbastanza critica, per un periodo che troppe volte è stato liquidato come “anni di piombo”, quindi in senso soltanto negativo o unidirezionale. Invece ti rendi conto della sua complessità e ricchezza, e di quanto oggi si abbia bisogno di fare i conti con quello che è successo nel Paese, in quel periodo in particolare.

La cinematografia italiana ha sempre fatto una gran fatica a parlare di quegli eventi, o li ha distorti. Questo a cosa è dovuto?

Fondamentalmente a una mancanza di lucidità, di distacco, ma nel senso buono del termine: si è sempre fatta una storia a uso proprio, di proprie convinzioni e ricordi. Ogni racconto è personale, compreso il mio, che vuole essere il più possibile antologico. Si tratta di un periodo strano, perché abbastanza vicino da non essere ancora storia, e abbastanza lontano da dover essere raccontato. Credo che, in questo, la lucidità sia qualcosa ancora da guadagnare.

Per altri versi, di quegli anni si è voluta una cancellazione storica.

È il segno dei tempi, dove si galleggia su un presente terribile. Bisogna fare uno sforzo per riportare fuori quel periodo - e tornare alla discussione - senza farlo diventare ammiccante come spesso è successo; il ’68 e gli “anni di piombo” attraggono perché a volte sono storie di violenza, oppure vengono raccontati in maniera “vintage”, come fatto di costume: bella musica e gonne a fiori. È storia recente, da bambino con quelli del mio palazzo giocavamo a guardie e terroristi, era qualcosa che arrivava a tutti, e io vorrei poterla raccontare a mio figlio. Gli ho fatto vedere il documentario: l’Italia gli sembrava fantascienza, quasi un teatrino dell’assurdo. In realtà è un Paese che esiste e di cui lui fa parte come strascico. Tendiamo a cancellare il passato perché sapere da dove veniamo, e come ci siamo modificati, non fa comodo a tante persone. Per questo è anche difficile immaginare, poi, il futuro.

Qual è il lascito di quelle tensioni ideali e materiali?

Fondamentale. Penso che molti dei diritti, delle conquiste di cui ancora oggi godiamo, vengano da lì, però si tende a dimenticare che molti problemi, rivendicazioni, critiche al sistema sono attualissime. Invece adesso si ha paura a parlarne, come se ormai questo stato delle cose fosse assodato. Ma delle istanze fondamentali sono urgenti, così come è strano che anche il G8, una delle ultime grandi contestazioni recenti, sia sprofondato in un buco nero della memoria.

Aggiornato il 09 maggio 2017 alle ore 12:14