Musso in tournée con due spettacoli

Il sacro e la guerra: questi gli ambiti degli ultimi due spettacoli che l’autrice/attrice Giuliana Musso (nella foto), nella sua ricerca artistica sul patriarcato, sta portando in giro per l’Italia. La tappa romana al Teatro Biblioteca Quarticciolo, con “La fabbrica dei preti” il 6-7 aprile (sarà poi a Verbania il 21) e “Mio eroe” l’8 e il 9 (in seguito a Vicenza, il 9 e 10 maggio) è l’occasione per incontrarla.

Comincia col descriverci il primo dei due lavori?

“La fabbrica dei preti” gira da quattro anni, l’ho scritto cercando di indagare le nostre radici culturali, l’educazione cattolica che molti hanno più o meno condiviso, anche a seconda dell’età. Ho fatto parlare anziani che hanno vissuto tutta la vita da preti, o quasi, perché c’è pure chi, a un certo punto, ha lasciato la veste. Nella maggior parte dei casi, sono stati ordinati sacerdoti nel 1975, anno in cui si concludeva il Concilio Vaticano Secondo, evento importante perché ha condizionato la cultura del nostro Paese, e non solo. E questi ragazzini, formatisi all’interno dell’ambiente chiuso, rigido di un seminario, si sono poi trovati ad affrontare un mondo fatto di nuove aperture e possibilità.

Ascoltare quelle testimonianze cosa le ha suscitato?

Ricordo la battuta di una ragazzina che mi ha detto: “A me dei preti non interessava niente, dopo questo spettacolo vorrei lanciare una petizione per salvarli dalla loro solitudine”. Lo spettacolo forse aggiunge un po’ di pietà umana per tutti noi, perché racconta di bisogni primari, che poi sono quelli affettivi e relazionali. A me ha dato l’opportunità di mettere in scena anche questo tipo di sentimenti, che forse nei lavori precedenti erano più sottotraccia; come quegli altri, offre sia momenti di ironia, leggerezza, comicità, che momenti più intensi, forti, e più in generale vede il pubblico molto presente.

Per loro, cosa ha significato esprimersi?

Tra di noi si è creato un legame molto forte, direi quasi intimo, a volte sento il loro abbraccio come quello di uno zio per una nipote, per capirci. Quelle che hanno deciso di consegnarmi le loro storie sono persone speciali. In aggiunta, lo spettacolo è anche un omaggio a Pietro Antonio Bellina, sacerdote molto amato in Friuli-Venezia Giulia, che ci ha lasciato dieci anni fa e aveva scritto un memoriale fortissimo sui suoi anni in seminario, il cui titolo io ho preso in prestito, in quanto sintesi meravigliosa di ciò che raccontava. Nello spettacolo, sono presenti sia quelli che poi sono diventati miei amici, sacerdoti dalla personalità molto decisa e grande, sia coloro che non ci sono più.

A proposito di “Mio eroe”?

Anche questo è un monologo, in cui do voce a tre madri di soldati che hanno partecipato alla missione ISAF in Afghanistan tra il 2009 e il 2010, morendo lì. Tratto quindi l’argomento della guerra, ma quella nostra, qui e ora. Le testimonianze sono forti, vivide, e grazie ad esse il lavoro di drammaturgia è anche molto provocatorio, i personaggi riescono ad interpellarci sul piano etico, politico, spirituale. Sono madri che, nel pianto, ragionano molto forte.

L’esigenza di farne uno spettacolo da dove è venuta?

Continuo il mio percorso di indagine su quelli che sono i fondamentali del patriarcato, modello di società, di cultura che ancora permane. In questi due spettacoli, uno è la manipolazione del sacro ai fini del controllo e condizionamento, l’altro è la violenza di sistema, rappresentata per eccellenza dalla guerra. Il militare è colui che la guerra la fa, e noi quale valore diamo alla sua vita? Se siamo disposti a concepirla come spendibile, meno importante e tutelata di quella dei civili, allora siamo perduti, perché ci sarà sempre un motivo valido per dire che una vita umana non conta abbastanza. È un accesso provocatorio, ma per me assolutamente indispensabile. Attraverso le voci delle madri, si delineano anche le figure di questi uomini, le loro motivazioni e scelte. Ogni storia, ogni vita, è unica: ammassarci dentro categorie assolute, rigide e ampie, è un modo per non farci esistere, invece il teatro ci porta la storia di quell’individuo, di quella persona.

Rispetto alle origini, il suo personale percorso artistico che direzione sta prendendo?

Credo che la matrice sia sempre quella del teatro popolare, parlo sempre alle persone, il mio discorso tiene conto dell’interlocutore, non è una dimostrazione di forza artistica, e penso che rimarrà sempre così. Negli ultimi due lavori - da quando ho iniziato questo percorso sulla distruttività umana - ho approfondito quei sentimenti più intimi, drammatici, che forse nei lavori precedenti, per pudore, esigenza di leggerezza, non toccavo con la stessa mano aperta. Tanto che, nell’ultimo spettacolo, il codice della comicità proprio non c’è, per chi come me è abituato a quel linguaggio che genera empatia, simpatia, una “comfort-zone” anche sul palcoscenico. È stata una scelta azzardata, un rischio, una sfida, ma penso che non valga la pena ripetersi ogni volta uguali a se stessi, meglio portare avanti qualcosa di nuovo, anche se ci crea difficoltà.

Aggiornato il 09 maggio 2017 alle ore 12:24