“Il segreto della vita”   e il Nobel mancato

Mentre al Palazzo delle Esposizioni a Roma si sta svolgendo una mostra sul Dna, lo spettacolo “Rosalind Franklin - il segreto della vita” di Anna Ziegler - con la stessa tematica, in concomitanza e a pochi passi di distanza - va in scena al Teatro Eliseo (che lo ha prodotto) fino al 16 aprile. Rivolgiamo alcune domande al regista/attore, Filippo Dini.

Che esperienza è stata quella di Rosalind Franklin?

Meravigliosa. È stata una grande donna, ma anche una grande scienziata, perché è arrivata a fare la scoperta sicuramente più importante del secolo scorso, forse la più imponente, grandiosa, di tutta la storia dell’umanità, ovvero la struttura del Dna, la molecola più piccola che dà vita a tutto il nostro essere e ci connota in quanto esseri umani. È una vicenda estremamente controversa, poiché lei riuscì - con grande difficoltà e abilità - a fotografare ai raggi x il filamento del Dna, deducendo che fosse una doppia elica. Quella foto le fu scippata dai suoi colleghi, e stiamo parlando di un mondo estremamente maschilista: una storia degli anni Cinquanta, e purtroppo sembra scritta oggi. Essi, in fretta e furia, costruirono il modello del Dna e diventarono famosi. A tutt’oggi, nei libri di testo, studiamo che questa scoperta si deve a James Watson e Francis Crick, e magari si fa solo un cenno a Rosalind Franklin, che invece fu la diretta responsabile. Lei morì di cancro a 37 anni, proprio per un’eccessiva esposizione ai raggi x, che erano lo strumento della sua ricerca. Watson e Crick invece vinsero il premio Nobel.

Che storia ne ha tratto Anna Ziegler?

Bellissima. Lei ha scoperto questa vicenda un po’ per caso e poi se n’è invaghita, ovviamente. Ne ha scritto una storia di persone che insieme cercano di scoprire quello che allora veniva chiamato il “segreto della vita”, e contemporaneamente esprimono tutte le loro difficoltà di esseri umani nel collaborare e nel gestire i rapporti reciproci. È un grande spaccato umano, e forse anche un momento di riflessione sui nostri limiti, incapacità, e sulla differenza sostanziale tra ciò che crediamo di desiderare e ciò che invece attuiamo ogni giorno nei rapporti personali con chi ci circonda.

Dal testo alla messinscena, qual è stato il lavoro e su quali elementi vi siete indirizzati?

La compagnia è bellissima, sono molto fortunato, onorato, poi i collaboratori - dalla musica alle luci, dalle scene ai costumi - sono tutti nomi importanti del panorama italiano, che hanno lavorato con grande grazia e ispirazione. L’obiettivo era proprio quello di creare un’occasione di riflessione sul nostro quotidiano, sulla difficoltà a comprendere, accettare i limiti di chi ci sta vicino e a godere della grandezza del mondo che ci circonda, come diceva Rosalind. Trovare ciò che c’è di buono intorno a noi è un allenamento quotidiano: i personaggi dello spettacolo ci provano continuamente ma, non riuscendo a collaborare, non salvaguardano neanche le ricerche di Rosalind. Quindi, in questa storia, chi è più furbo e ambizioso vince.

Il doppio ruolo regista/attore?

È una dimensione che prediligo, perché riesco a lavorare anche dall’interno. Quindi, sicuramente è un lavoro molto più faticoso, difficile, dato che ci vuole sempre un occhio attento per quanto riguarda me stesso, ma istintivamente ho anche uno sguardo privilegiato nei confronti dei colleghi, e questo arricchisce il mio lavoro di attore. Nella protagonista Asia Argento ho trovato una collega meravigliosa, fin dal primo giorno ha affrontato il lavoro con totale umiltà e grandissima generosità, studiando come una pazza. È stato un viaggio che abbiamo fatto insieme, con tanta pazienza - come faceva Rosalind - e molta attenzione ai dettagli, con profondità e delicatezza. Insomma, il personaggio è davvero controverso, entusiasmante, e quindi meritava tanta accuratezza.

Rispetto alla vicenda che ha vissuto, quali sono gli aspetti della personalità di Franklin che più l’hanno impressionata?

È stata una persona con un gran caratteraccio, aveva un’enorme difficoltà a interagire con i suoi colleghi. Però pensiamo che, negli anni Cinquanta, era una donna, ebrea, in un ambiente completamente maschilista, e in più per andare al King’s College a Londra le condizioni erano che avrebbe potuto lavorare in autonomia; invece, poi, quando arrivò il suo capo - Maurice Wilkins, da me interpretato - le disse semplicemente che doveva essere la sua segretaria. Lei rispose: “Io non sarò l’assistente di nessuno”, e questa è la prima scena dello spettacolo. La sua vita professionale era estremamente difficile, all’epoca era rarissimo che le donne potessero arrivare a quel livello, e ciononostante lei era assai poco collaborativa, e questo la limitò moltissimo. Ma, dato tutto quello con cui si doveva confrontare, probabilmente era anche giustificata. Fatto sta che questo generò un’impossibilità allo scambio di informazioni nelle ricerche, e le sue erano fondamentali allo scopo, perché lei era la più grande cristallografa d’Europa, e quella disciplina scientifica fu la strada ritenuta più idonea per arrivare a determinare la struttura del Dna.

(*) Per info e biglietti: Teatro Eliseo

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:26