Huppert-Verhoeven: psiche malata francese

martedì 14 marzo 2017


Figlia di un serial killer fanatico religioso e amante della violenza sessuale su di sé. L’attrice Isabelle Huppert e il regista Paul Verhoeven, insieme nel film “Elle”, dal 23 marzo nelle sale italiane distribuito da Lucky Red, sono una garanzia di scandalo. Sia pure un po’ telefonato.

La prima scena spiega tutto: la Huppert è vittima di una violenza sessuale che si consuma serafica sotto gli occhi di un bellissimo gatto certosino. Dopo aver lottato contro il suo aggressore mascherato e avere alla fine subito lo stupro, la donna, che nella vita è una manager, ricchissima erede di una fortuna lasciatale dal padre (a sua volta un assassino seriale di ben 27 bambini del quartiere, e da decenni seppellito in carcere a Parigi) si va a fare un bagno e come se niente fosse il giorno dopo si ripresenta al lavoro. Che è quello di amministratore delegato di un’industria che produce videogiochi violenti e che lei stessa testa in una sala cinematografica privata insieme ai giovani “millennials” che li progettano.

Lo spettatore viene subito proiettato in mezzo a uno scenario da incubo, che però viene gestito dal regista come fosse la routine della società francese odierna. C’è da dire che la Huppert, nonostante l’età, continua a recitare ruoli da perversa, ninfomane e amante della violenza sessuale, con buona pace della festa della donna appena passata. Sembra che l’immaginario femminile nei film in cui recita la bravissima attrice d’Oltralpe sia sempre sul crinale della formula “vis grata puellae”.

Così va avanti per due ora la trama di un film che si dipana tra i problemi di coscienza per conto terzi che la stessa Huppert nutre. Con tanto di madre ninfomane anche lei (e che si è rifatta una vita con un gigolò ma che ancora rimpiange il padre serial killer), e con il “milieu” delle feste private dell’alta società parigina. Come in un fumetto di Gérard Lauzier con spunti da racconto di Edgar Allan Poe.

Il film è tutto sommato divertente anche se scontato nell’epilogo (come nel prologo). Tutto ruota intorno a una visita in carcere che il padre pluriomicida si aspetta da questa figlia che ha avuto la vita segnata dalla tragedia consumatasi 40 e passa anni prima, nel 1976, allorché la allora piccola “Elle” venne trovata dai poliziotti seminuda in mezzo al sangue dopo che il padre aveva ucciso tutti i bambini del quartiere. Una specie di citazione della famosa foto della bimba vietnamita che sfugge al napalm nuda immortalata ai tempi della guerra al 38esimo parallelo. Il padre, prima di esplodere nel raptus, era uso farsi il segno della croce e farlo sulla testa di ogni bambino che incontrava portando la figlia a scuola.

Da grande questa figlia segnata dalla violenza si ritrova a essere stuprata da quest’uomo mascherato, che la stalkerizza oltre che violentarla periodicamente, con apparente soddisfazione reciproca della violentata e del violentatore. Poi si scoprirà che il maniaco è il vicino di casa anche lui molto religioso, con moglie complice, sempre pronto al segno della croce e al ringraziamento prima di toccare cibo, anche e soprattutto prima della cena della vigilia di Natale, alla quale invita tutti i vicini di casa, compresa quella che periodicamente violenta.

Un film contorto e perverso o semplicemente banale come il male oscuro che descrive? Alla fine tra psicanalisi d’accatto e simbolismi scontati, la pellicola tutta cucita sulla Huppert risente proprio di questi limiti. Una volta lo si sarebbe definito film di maniera.


di Rocco Schiavone