Docufilm di Amoruso sulle donne migranti

sabato 11 marzo 2017


Uscito in sala l’8 marzo in occasione della Giornata internazionale della donna, il documentario “Strane straniere” è l’opera seconda della scrittrice, sceneggiatrice e regista Elisa Amoruso dopo il sorprendente “Fuoristrada”, storia di un meccanico romano che si è fidanzato con la badante rumena della madre per poi diventare donna. Parliamo con lei di questo nuovo lavoro.

Chi sono le protagoniste?

Cinque donne, arrivate in Italia da Paesi diversi, che sono riuscite a realizzare un loro sogno. C’è Radi, una bulgara che non aveva mai visto il mare e qui è riuscita a diventare pescatrice. Sonia gestiva il piccolo ristorante cinese da venti coperti dello zio e lo ha trasformato in uno dei più grandi e famosi della capitale, grazie alla sua personalità e simpatia. Sihem è una tunisina a capo di un’associazione culturale che fa volontariato e tante attività a carattere umanitario con la comunità di Aprilia. Infine Ljuba e Ana, una serba e una croata che si sono incontrate a Roma vent’anni fa, mentre nei loro Paesi c’era la guerra, sono diventate amiche e hanno deciso di fondare una galleria d’arte.

Il suo incontro con queste donne è stato programmato o casuale?

Erano già state contattate da un’antropologa, Maria Antonietta Mariani, che è venuta a propormi il progetto, collaborando poi con me all’idea e al soggetto del film. Anche con l’aiuto di Rai Cinema, abbiamo scelto quali fossero le protagoniste giuste per questa storia. Il lavoro antropologico aveva un po’ lo stesso scopo del film, anche se nelle mostre di Maria Antonietta le donne si raccontavano soprattutto per il loro mestiere. Io ho provato a dar loro anche una parte più intima, a far arrivare la narrazione dei loro ricordi, radici e desideri, volevo un racconto delle emozioni, non soltanto della storia personale, che in quasi tutti i casi è complicata, ma comunque di integrazione e successo.

A partire da quest’idea iniziale, poi il seguirle nelle rispettive vite ha modificato, arricchito il percorso del documentario?

Questo succede spesso anche nei film di finzione, ma soprattutto nei documentari, perché si tratta della realtà che abbiamo davanti e stiamo cercando di fotografare e raccontare. Le loro storie mi hanno sorpreso al punto che dovevano essere tre, e sono diventate cinque: quando ho conosciuto Ljuba e Ana, mi sono talmente appassionata alla relazione che hanno, alla maniera in cui raccontavano della propria infanzia, al loro modo di vedere le cose, e di esportare gli artisti della galleria, che alla fine le ho incluse in questi ritratti. Ciascuna ha dato un valore aggiunto al film che io non avevo possibilità di prevedere. Ho tentato di creare comunque un tessuto narrativo di contenuti che potesse accorparle l’una all’altra, perché fin dall’inizio avevamo l’idea di un film corale, di personaggi che hanno vite parallele che si uniscono, passano dall’una all’altra attraverso cornici emotive, parole, un’immagine oppure un suono che ritorna. Con cinque storie sicuramente il film è più ricco e sfaccettato, i ritratti sono variegati, complessi e credo anche più interessanti.

Ha seguito ogni storia con continuità, o in maniera intermittente, e complessivamente quanto tempo è stato necessario?

Negli incontri, ho cercato di stabilire dei contatti il più possibile in profondità con queste donne, alle quali chiedevo di raccontarmi la loro vita; quindi, era necessario che tra noi ci fosse uno scambio intimo, una confidenza, che potessero fidarsi di me. Tra la scrittura e le riprese è passato circa un anno. I filmati sono stati fatti anche in momenti diversi, perché alcuni erano finalizzati a un promo, poi invece abbiamo capito che ognuna di loro ci stava raccontando parti fondamentali della sua vita, e quindi nel film abbiamo inserito anche quelli. È stato tutto gestito pure in base agli umori, a ciò che veniva fuori, a quanto accadeva. Penso ad esempio al marito di Sonia, che quando abbiamo cominciato a girare non c’era, lei nell’intervista mi aveva detto: “è scomparso da due anni”; quando poi abbiamo ripreso a girare, tre mesi dopo, lui era tornato. Quindi ci sono stati anche grossi cambiamenti nelle vite personali, come sempre accade in un documentario.

Nelle rispettive vicende, in che rapporto erano l’universo intimo, sentimentale, e l’attività lavorativa?

Quello che ho riscontrato spesso, nelle loro vite, è un divario tra l’ambizione professionale e il privato, e ho provato a farlo diventare anche un po’ un filo conduttore. È come se ci fosse bisogno - ancora oggi - di emanciparsi, e questo mi ha abbastanza sorpreso, perché, fatta eccezione per la storie di Ljuba e Ana, in cui c’è più armonia tra privato e professionale, le altre invece hanno dovuto separarsi da relazioni sentimentali e familiari che le tenevano incastrate, le soffocavano, e quindi non riuscivano ad esprimere la loro identità completa. Si sono tutte liberate, forse anche per il fatto di venire da una condizione e una cultura così rigida e costrittiva - in un caso anche italiana - sono riuscite poi a separarsene e a trovare una loro strada.


di Federico Raponi