Vita di un femminiello, “Scannasurice” a Roma

giovedì 9 marzo 2017


Premio della critica 2015 come miglior spettacolo, fiore all’occhiello del Teatro Elicantropo con una notevole interpretazione di Imma Villa, è nuovamente a Roma “Scannasurice” di Enzo Moscato (Piccolo Eliseo, fino al 19 marzo). Ce ne parla il regista, Carlo Cerciello.

Che cosa racconta?

È la storia di un femminiello dei quartieri spagnoli che vive in una in una sorta di pattumiera in mezzo ai feticci, ai rottami e ai topi, metafora dei napoletani, per i quali prova amore e odio. Egli è un simbolo universale di incompletezza esistenziale che può riguardare tanti di noi, non soltanto di diversità, che pure è trattata. Vive un eterno presente di precarietà, non appartenenza, con un passato ormai oleografico e un futuro indefinito. Sta a mezza strada, “borderline” tra luce e buio, in un rapporto sacro e profano con la morte e le leggende: c’è sempre un modo per pescare in qualche altra realtà per sostituire quella che non ci piace, che non possiamo sopportare. Questa credo che sia la grande lezione di “Scannasurice”, oltre a essere un testo pieno zeppo di riferimenti, concetti, materiale magmatico per la messinscena, attraverso un’affabulazione che pian piano sfuma in un dramma finale di solitudine.

Qual è stato, all’epoca, il portato di Enzo Moscato?

Scritto subito dopo il sisma del 1980, questo testo segnò l’irruzione di Moscato nel teatro, e fu un terremoto anche per noi perché ci indicò una nuova possibilità; non soltanto drammaturgicamente, con uno sguardo oltre il detto e rappresentato, ma anche un’altra visione della “napoletanità”, non più edulcorata: un’indagine molto più profonda nelle faglie dolorose del nostro essere cittadini di quella città. Per me era indispensabile mostrare quel terremoto che lui ha significato, e mi interessava anche tornare alle motivazioni per le quali ho iniziato a fare teatro: Enzo Moscato, Leo de Berardinis, Antonio Neiwiller sono i miei massimi riferimenti.

Rispetto al testo, che operazione avete fatto?

Gli artisti che hanno collaborato con me alla messinscena sono tutti amici fraterni, che hanno condiviso un progetto: abbiamo puntato ai segni fondamentali che vengono fuori dall’opera. Innanzitutto non trattando soltanto dell’ambiguità sessuale, ma di un inappagamento. Il personaggio l’ho trasferito su un’attrice, e questo già significa spostarsi dal fatto che sia stato Moscato l’unico interprete. Poi l’attenzione si è concentrata - anche concettualmente - sulla scena. È bello capire come si arriva alla materializzazione di un sogno, di un’idea; Roberto Crea, lo scenografo, mi ha detto: “Hai visto i quartieri spagnoli dal satellite? Sembrano un labirinto”. Dall’alto, infatti, sono delle linee che si intersecano, per vedere devi scendere sempre più giù perché sono bui, il sole non ci arriva e le persone che si muovono lì sembrano topi. Allora abbiamo portato questa visione in verticale, e l’unico elemento in scena è diventato tutto: stamberga, fognatura, cimitero, anche il senso crudo dell’essere terremotato, di non avere nulla. Ecco, questo è stato un modo per superare il gap fortissimo di fronte a un testo dove Enzo è stato protagonista e regista in scena, e quindi non aveva bisogno di nulla. Io invece avevo una necessità di centrare e di costruire un personaggio che si muovesse nei concetti che stanno dietro il fiume di parole della scrittura.

Sull’esperienza dell’Elicantropo?

Sono oltre vent’anni di attività. Io avevo bisogno assoluto di un luogo, lavoravo ovunque, non mi è mai piaciuto dipendere da qualcuno e non pensavo che mi sarebbe scoppiato in mano un teatro; c’era bisogno, fame, di una vetrina e anche di un rapporto diverso, ravvicinato, con il pubblico, che è anche un piccola autodifesa, a mezza strada tra teatro e cinema. E così lì è successo di tutto, sono venuti i più grandi critici e abbiamo avuto tanti riconoscimenti. Siamo in un vicoletto del centro storico, con 38 posti: abbiamo scommesso su noi stessi, e la magia di quello spazio è stata la risposta a una coerenza che abbiamo continuamente cercato; senza un occhio alla realtà che ti circonda, per me il teatro non esiste; senza una motivazione si parla addosso, è vuoto narcisismo che non serve a niente. Questa è sempre stata la nostra strada, e forse ci ha premiati. Il teatro è sabbia, non stiamo costruendo nulla di speciale, però non c’è niente di più grande del rito dell’uomo che parla all’uomo. Il nostro fare teatro è vissuto come un’altra realtà - sospesa tra vita e morte, dove tutto è possibile - nella quale lo spettatore identifica i segni e i significanti che poi criticamente sviluppa per sé, sogna e fa quello che gli pare. Non c’è bisogno di una drammaturgia per forza lineare, né della storiellina, il teatro è il luogo del simbolo; faccio sempre un esempio ai miei allievi, all’accademia: quando vediamo le opere anche più naturalistiche, come Totò in “Miseria e nobiltà” che si mette i maccheroni in tasca, cos’è quello, se non un gesto simbolico? Credo che sia fondamentale, ed Enzo ha rappresentato questo per noi.

(*) Per info e biglietti: Piccolo Eliseo

(**) Foto di Andrea Falasconi


di Federico Raponi