Quattro testi che si  fanno corpo con Gifuni

“L’autore e il suo doppio” è l’evento straordinario che vede l’attore Fabrizio Gifuni portare in scena a Roma - al Teatro Vascello, dal 2 al 12 marzo - quattro suoi lavori tratti da capolavori della letteratura. Ce li facciamo presentare da lui.

Ci descrive quest’operazione?

Sono lavori molto diversi uno dall’altro. Si inizia con “Lo Straniero” di Albert Camus, il capolavoro dell’esistenzialismo francese; dei quattro, è quello dalla vita più lunga, è stato anche nelle stagioni dei grandi teatri italiani, ha avuto diversi riconoscimenti ed è lo studio più compiuto. Gli altri hanno girato negli ultimi due anni, due sono “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini e uno studio sul primo capitolo de “Il dio di Roserio” di Giovanni Testori, entrambi tra gli esordi letterari più interessanti del Novecento, pubblicati a distanza di un anno l’uno dall’altro. Di quest’opera pasoliniana ho scelto sei blocchi, seguendo un principio di piacere e le parti che volevo condividere con il pubblico. Ogni blocco è preceduto e seguìto da frammenti più performativi, provenienti da altri materiali. A chiudere, c’è “Un Certo Julio”, omaggio a Julio Cortázar e Roberto Bolaño, dove condividerò il palco con un grande sassofonista argentino, Javier Girotto. Il lavoro che faccio sui testi è anche la ricerca di un suono, perché ognuno dei romanzi e racconti è abitato da tante voci, e mi interessa cercare l’impulso primitivo che dal corpo degli autori si è trasformato in voce scritta.

Cos’altro unisce i quattro testi?

Intanto il fatto di essere tutti tra teatro e letteratura, materiali non pensati dai loro autori per il teatro e che diventano materiale di scena; e poi l’idea che ha dato lo spunto al titolo della rassegna, cioè che le parole provengono dai corpi degli scrittori e da questi finiscono occasionalmente sulla pagina scritta con l’unico scopo di essere trasmesse, fino a che non si decida di riportarle alla loro sede originaria: una sorta di passaggio dal corpo dell’autore a quello dell’attore. Ciò mi si è chiarito negli ultimi anni, praticando anche molto questo tipo di studio tra il “reading” e la “performance”, dove il corpo è proprio l’elemento centrale.

Quali sono le caratteristiche che l’hanno maggiormente impressionata delle scritture?

Alcuni sono molto famosi, “Lo Straniero” e “Ragazzi di vita” forse i più letti, nel complesso quattro testi formidabili. Il libro di Camus è misterioso, pronto per essere portato in scena, perché interamente abitato da un’attività sensoriale fortissima, che buca la pagina e arriva direttamente sul palcoscenico; sembra essere fatto apposta per essere condiviso a teatro. Il romanzo di Pasolini è una grande passione, tra l’altro c’è stata recentemente una bellissima edizione scenica e corale fatta al Teatro di Roma da Massimo Popolizio. Quello che viene fuori, e mi affascina di più nel testo, è il contrasto tra la violenza di questi ragazzi e quella che l’autore definiva la loro innocenza, e quindi - volontariamente o meno - un aspetto anche comico; questo credo che dia il grande spessore al racconto, ed è l’elemento che più mi interessa e appassiona riassumere in scena. In Testori, invece, c’è una straordinaria incursione nella lingua lombarda, mentre Cortázar e Bolaño sono due latinoamericani geni assoluti della scrittura, il primo ha avuto anche una forte influenza sul secondo, che lo riconosceva volentieri come un suo maestro.

Sul rapporto tra letteratura e teatro?

Dagli inizi del Duemila, quando ho presentato “‘Na Specie de cadavere lunghissimo”, il primo spettacolo di cui ero anche autore, condiviso con Giuseppe Bertolucci, all’attività di attore si è andato sommando - prendendo sempre più piede - un lavoro anche di questo tipo, molto naturale, un impulso venuto dopo anni di lavoro di compagnia con dei grandi maestri. A un certo punto, ho sentito che il teatro era un luogo troppo importante - dove d’altra parte spendevo la maggior parte della mia vita - per essere uno spazio dove giocare solo da interprete puro, cosa che invece mi diverte molto continuare a fare nel cinema. Con Luca Ronconi, con cui ho avuto la grande fortuna di lavorare in quest’ultima stagione di “Lehman trilogy”, ci trovavamo molto in consonanza sull’idea che la drammaturgia sia aperta, e quindi non c’è bisogno di ricorrere sempre e soltanto a testi già dati, pensati per la scena, ma si può creare e scommettere anche su materiali come quelli provenienti dalla letteratura che si fanno teatro; del resto, lui ha realizzato spettacoli - tratti da romanzi - che hanno fatto la storia del teatro italiano, dal “Pasticciaccio” a “Lolita”. L’idea è quella di scovare una fortissima teatralità - principalmente di lingua, che poi si fa carne - in testi nati non per il teatro. Carlo Emilio Gadda, su cui ho lavorato tanti anni, non ha mai scritto per il palcoscenico, ma tutta la sua opera è teatro allo stato puro, e allora perché fare a meno di grandi autori e testi soltanto perché sono stati pensati per la lettura? Può darsi che possano riservare delle grandi sorprese anche riportati di nuovo al corpo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:26