Emanuele Salce: parla un figlio d’arte

Crescere con un padre ingombrante è difficile, sempre latente il rischio di rimanere nell’ombra di una notorietà riconosciuta solo attraverso un medesimo cognome ma di cui non si è realmente all’altezza. Diventare grandi nell’ombra di due “mostri sacri” è davvero un’ardua impresa. Ed è proprio questa la storia di Emanuele Salce e della sua dura vita da figlio d’arte. Da una parte il padre Luciano, regista e comico italiano di fama, dall’altra Vittorio Gassman, che non ha certo bisogno di presentazioni, secondo marito di sua madre, Diletta D’Andrea. Figlio unico (fatto salvo il fratellastro Jacopo Gassman), Emanuele ricorda la sua infanzia solitaria priva di figure di riferimento. Con “Mumble Mumble”, quest’anno alla settima edizione – dal 21 al 26 febbraio alla Cometa Off di Testaccio, da cui è partito nel 2010, e dal 7 al 12 marzo al Teatro Tordinona – Salce, in maniera probabilmente liberatoria, mette sul piatto la sua storia consegnandoci, in uno spettacolo in tre parti (coadiuvato sulla scena da una eccellente spalla, Paolo Giommarelli) i tratti salienti della sua autobiografia. Lo abbiamo incontrato – oggi cinquantenne, colto ed estremamente autocosciente – per saperne di più.

Che cosa vuol dire essere un figlio d’arte e che rapporto avevi con i tuoi “due padri”?

Con uno avevo un rapporto difficile, con l’altro direi un “non rapporto”. A Vittorio stavo antipatico. Mi considerava un rivale. Mentre mio padre era proprio assente. Non aveva idea di che cosa significasse avere un figlio. A ciò si aggiunge che erano due “mostri sacri”. L’unico modo per riappacificarsi con loro era quello di scontrarcisi. Inutile fingere...

Nasci come regista, almeno per formazione. Come sei arrivato dalla macchina da presa al palco?

Il cinema è sempre stata solo una sfida, dovevo dimostrare di potercela fare, che potevo entrare al Centro sperimentale. Poi una volta entrato, nel mio primo anno di frequenza morì mio padre, così seguirono problemi di presenza e un diffuso pietismo da cui sono sempre rifuggito. Mi sono comunque diplomato, ho fatto per alcuni anni l’aiuto regista, poi per alcuni anni nulla, perché era più forte la paura del fare qualcosa. In verità non ero mai stato invogliato a fare l’attore, e la vedevo persino come una cosa sconveniente. Non avevo la passione, ma poi ci si rende conto che le passioni infantili non sono quelle della maturità. A un tratto ho pensato che me lo stessi negando io stesso per paura di andarmi a confrontare. Era l’epoca dei concorsi, mi misuravo con molte cose, facevo concorsi di ogni genere solo per dimostrarmi di potercela fare. Ne ho vinti molti, ma non mi interessavano realmente, il punto era portare a termine qualcosa. In più non credo sia giusto che a vent’anni uno debba scegliere cosa fare per tutta la vita.

E come ti sei avvicinato al teatro?

A un tratto ho capito che dovevo tentare quello che mi spaventava di più. Quando ho iniziato facevo l’attore di compagnia, una situazione abbastanza protetta. Man mano che la mia sicurezza cresceva ho trovato la forza di rompere questo ipotetico equilibrio. Non ho mai cercato la vita comoda. Volevo andarmi a sfidare laddove c’era il vero senso di inadeguatezza e le paure più ancestrali.

Felice della scelta?

Già scegliere vuol dire dirsi una verità e rifuggire l’autoinganno. Per fortuna inoltre – ma non sempre capita – è andata bene, e mi ha anche molto arricchito come persona. Fare l’attore vuole dire essere perennemente sotto esame, è la regola base del gioco. In certi momenti è più faticoso di altri. Il set non mi ha mai appassionato molto, sento il teatro più vero, soprattutto nel rapporto col pubblico. E poi a teatro è sempre buona la prima, al cinema puoi fare tutti i ciak che vuoi.

Come è nato “Mumble Mumble”?

Era il 2009, un teatro milanese mi aveva commissionato una serata. Ho pensato inizialmente ad un racconto di Dostoevskij. Poi nacque l’idea di mettere in scena qualcosa di mio e così ho ripreso in mano un testo che avevo scritto per il cinema e mai realizzato. Partiva con il racconto del giorno in cui morì mio padre. Avevo scritto un romanzetto che inizialmente era composto solo di due parti, la morte di mio padre e l’Australia. Quel teatro mi censurò trovando il testo troppo “spinto”, ma forse è proprio da lì che nasce la sua fortuna. All’inizio è stato prodotto da Franco Clavari, lo abbiamo portato qua e là, ma sempre incontrando grandi difficoltà. Per i primi tre anni abbiamo girato faticosamente facendo 20-30 repliche l’anno. Poi il produttore si è stancato, anche per il titolo “Mumble Mumble” che non era di grande appeal, per non parlare poi del sottotitolo “Confessioni di un orfano d’arte. Racconto di due funerali e mezzo”... Però io l’ho ripreso perché rappresentava un completamento del mio percorso umano, qualcosa di importante. E in verità è lo spettacolo meno visto ma più rivisto.

Serve molto coraggio per mettersi a nudo con uno spettacolo come questo?

Lo spettacolo nasce da un’esigenza forte di non avere più alibi. La pièce si snoda attraverso il racconto di tre episodi importanti della mia vita: il giorno della morte di mio padre, quando avevo vent’anni, comunicatami telefonicamente di primo mattino dopo una notte di eccessi etilici, la morte di Vittorio e il funerale, che assume toni quasi carnevaleschi, e l’incontro con l’amore australiano, turbato dall’ingestione di una confezione di guttalax il giorno prima... È stato “salubre” farlo. È stata l’occasione giusta per mettermi in gioco, per capire chi ero, cosa stavo facendo, mettermi a nudo non come “bella mostra”, ma per essere accettato per quello che sono.

Progetti presenti e futuri?

Continuo a fare l’attore, tuttavia mi piacerebbe scrivere un’altra cosa, e credo che se mi riuscisse poi potrebbe piacermi anche portarla in scena.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:23