“Il cliente” di Farhadi: intrecci e tensione

venerdì 10 febbraio 2017


Come si presenta “Il cliente”, film iraniano del regista Asghar Farhadi? Alla stregua di un racconto di crepe: materiali, etiche e affettive. Un edificio pericolante di cemento malato, evacuato d’urgenza. Una precaria compagnia di attori teatrali che recitano “Morte di un commesso viaggiatore”, accerchiati da una censura occhiuta e da un pubblico rado come una calvizie incombente. Il massimo della sensualità concessa per rappresentare il rapporto occasionale del commesso con una prostituta è quello di far apparire la sua compagna occasionale completamente vestita, con corredo di vistosi stivali, per simulare una donna nuda sotto la doccia, sorpresa casualmente dal figlio di lui. Situazione imbarazzante che nel dramma di Arthur Miller è destinata a logorare ulteriormente il rapporto già degradato padre-figlio. Poi, un diagramma sofisticato e articolato di cerchie affettive, che vanno dall’anello più interno dello spazio personale di Emad (Shahab Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoosti), una giovane e bella coppia molto innamorata, a quello immediatamente adiacente e discendente, come interesse primario, della coesione gruppale di una compagnia di attori che cercano di sopravvivere con la loro arte. E in questo, ci sarebbe da dire, tutto il mondo è Paese, per quanto riguarda le mille difficoltà che incontra ovunque lo spettacolo dal vivo.

Infine, la geometria relazionale complessiva, molto naturale, leggera e rispettosa, è completata dal circuito più esterno del vicinato e dei condomini. Per lui, professore di Lettere al liceo, risalta ancora un ulteriore layer sociale, in cui la classe, le sue atmosfere e le composite personalità adolescenziali dei suoi studenti, tutte coniugate al maschile (in Iran sono vietate le classi miste!), assorbono e indirizzano le energie represse di un docente senza pace interiore. L’instabilità è, in fondo, la cifra e la declinazione essenziale della vita di coppia di Emad e Rana. Poche suppellettili recuperate dalla casa in rovina, da sistemare in uno nuovo, squallido domicilio domestico, insidiato dal profilo inquietante e fantasmatico di una ex inquilina, madre di un bambino e senza marito, che ha stipato in uno dei due piccoli ambienti le sue masserizie e i ricordi personali, ignorando pervicacemente il pressante invito a liberare la stanza, con quel suo rinviare di continuo l’appuntamento con il padrone di casa e impresario della compagnia teatrale, sempre più in imbarazzo con i suoi nuovi ospiti. E uno di quei fantasmi di ritorno, frequentatori abituali del misterioso appartamento, appare all’improvviso lasciando Rana ferita e sanguinante dopo averla aggredita mentre lei era in bagno.

Lui, il misterioso “cliente” dell’ex inquilina dalla discussa moralità pubblica, è un uomo terrorizzato dalla sua stessa violenza, che lascia nell’ex casa di appuntamenti le chiavi di un furgoncino e il cellulare. Emad, che su sollecitazione di Rana evita di denunciare l’accaduto alle autorità di polizia nel timore delle conseguenze dello scandalo, si improvvisa detective e vendicatore, scoprendo con facilità e discrezione ciò che doveva essere svelato. Ma, a questo punto, la strategia messa a punto da Emad, per la delegittimazione pubblica e privata del colpevole, trova un argine insuperabile nel femmineo di Rana permeato di pietas, che sa saggiamente proiettare le conseguenze infauste del rancore razionale di suo marito, ansioso di rivalsa, sulla sfera affettiva di un uomo insospettabile, venerato marito e padre di famiglia. Così, è la giovane moglie a proteggere le fondamenta della costruzione familiare e dei pilastri relazionali pluridecennali del colpevole, arrivando a provocare volutamente una rottura coniugale tra lei ed Emad, diretta conseguenza dell’incapacità di suo marito di muoversi e orientarsi su di un piano più propriamente religioso, che obbliga a perdonare chi chiede pietà, avendo riconosciuto la sua colpa.

Film profondo, malgrado il suo lento movimento e i dialoghi asciutti ed essenziali.


di Maurizio Bonanni