“Una casa di bambola”, amori e verità nascoste

Quante porte ha una casa? Molte, in particolare, a voler dare ascolto allo spettacolo “Una casa di bambola”, di Henrik Ibsen, che va in scena fino al 19 febbraio al Teatro Argentina di Roma, per la regia di Andrée Ruth Shammah, con Filippo Timi e Marina Rocco nella parte dei protagonisti.

Il tema al centro del dramma è l’annosa questione della “verità” all’interno della coppia, in un matrimonio dall’apparenza perfetto: tre figli; una discreta posizione sociale di lui, raggiunta dopo molti sacrifici in comune; amici e servitori fin troppo curiosi e interessati. In Henrik Ibsen l’incastro situazionale ha un retrogusto amaro di verità nascoste, di interdetti sociali e morali che, a dire il vero, la gioventù spesso non intende onorare, anteponendo al conformismo perbenista un proprio singolare approccio, del tipo “il fine giustifica i mezzi”. Così, per una donna che ama, moglie o meno, il primo dei valori da salvare è l’amore per il suo uomo e, soprattutto, la sua sicurezza. Quindi, se per guarirlo da un male grave, che per la cura presuppone un lungo soggiorno in una regione (italiana) climaticamente favorevole, allora che cosa importa se il prestito necessario è stato ottenuto con una firma falsa? L’importante è aver restituito gioia e salute al proprio amato.

Ma, e questo è il vero discorso, il diritto e i codici penali non ammettono deroghe simili e così i dadi scorrono sull’abaco della vita e riportano indietro un passato doloroso, irto di spine e privo di fiori, senza un atomo di compassione. Intanto, tutti cercano di massimizzare i propri interessi materiali e affettivi, in un gioco perfetto di specchi e di egoismi simmetrici. Si muovono nell’ombra gli amori inconfessabili; tramano per la perdizione amori perduti, carichi di risentimento e di vendetta. L’unica, dolorosa e confortante presenza umana è quella di un’anziana governante, tutrice di Nora, la protagonista, che semina antiche sentenze popolari lungo i solchi di incomprensione che si aprono come crepe nel pavimento, sul quale si muovono le ragioni e le incomprensioni dei protagonisti e dei loro comprimari.

Alla routine passiva di una moglie che ama spendere e di un marito tutto casa e ufficio, che non smette mai di essere l’uomo pubblico rispettabile, il “pupo” pirandelliano che si mostra senza ombra né peccato all’esterno, si oppone la storia lugubre e malmostosa dello strozzino che ricatta Nora per difendere il suo posto di lavoro duramente riconquistato, ma che quel suo marito vuole oggi cancellare.

Altre due figure fondamentali del dramma ibseniano si schierano come altrettanti alfieri e torri nel gioco degli scacchi, all’interno della coppia campione di perbenismo, in cui la fine dell’uno, un medico ammalato di sifilide, è solo l’inizio della vita per l’altra, l’amica del cuore, che ricuce un legame dissolto per fame e per dolore quando la donna era nel fiore degli anni. Perché, è vero, non si può tenere conto della boheme, quando occorre farsi carico di una madre vedova e malata e di due fratelli poco più che bambini. Ma, una volta venuti meno quei due puntelli esistenziali di Nora ed emersa la spiacevole verità della moglie falsaria, cade la maschera all’uomo tutto d’un pezzo, mentre l’amore che non conosce confini subisce l’onta del ridimensionamento, dell’oscura prigione delle debolezze altrui, pronte a ignorare per pochi spiccioli di onorabilità colei che avrebbe sacrificato la propria vita in cambio di quella dell’altro.

Ibsen dice, in definitiva, che nessun contenitore d’amore e di pietas è infinito: anche Nora può subirne l’onta, scoprendo in un attimo che il sogno meraviglioso, da lei tanto atteso, non arriverà mai. E forse, non è solo prerogativa delle donne, invertire radicalmente il segno dei propri sentimenti, fino alla completa estraniazione, alla fuga senza ritorno.

A parte il genio di Ibsen, lo spettacolo tiene molto bene, soprattutto nelle... seconde file! L’istrionismo e la genialità scenica di Timi (uno e trino, sì, ma che appare pur sempre contenuto in una sorta di camicia espressiva di Nesso) non sono fatti, forse, per sposarsi con quanto di più classico e rigoroso offra il teatro!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34