Va in scena l’identità di genere

Il cambio di sesso come forma dialogica: la drammaturga Francesca Manieri (conosciuta soprattutto in quanto premiata sceneggiatrice di film, tra cui “Veloce come il vento”, “Vergine giurata”, “Il rosso e il blu”) e la regista/attrice Federica Rosellini si cimentano nella trasposizione di “Testo tossico” del filosofo “queer” Paul B. Preciado (già Beatriz), a Roma, al Teatro dell’Orologio (dal 20 al 22 gennaio). Chiediamo ad entrambe di parlarcene.

Cosa racconta lo spettacolo?

Federica Rosellini: Beatriz Preciado perde il suo migliore amico Guillaume Dustan, poeta molto famoso, e per elaborarne il lutto inizia una pratica di assunzione di testosterone, in qualche modo per divenire lui.

Come è avvenuto l’incontro con Preciado?

Francesca Manieri: Molti anni fa, quando era ancora Beatriz, venne a Roma per cinque giornate lesbiche di cui curavo la parte filosofica, il “queer”. Lei fece una “lectio magistralis” in cui espose alcune tesi dell’omonimo, straordinario testo che è un’incredibile alchimia di “auto-fiction” e filosofia, con capitoli molto densi in cui lei ha elaborato la sua teoria post foucaultiana. Dopo l’evento, Fandango decise di tradurre il libro in italiano. Da lì per me è stato un innamoramento, che tuttora continua. Federica vide nel testo uno spettacolo teatrale, con mio grande turbamento, perché non immaginavo fosse possibile per una materia così complessa e variegata, ed è stato un viaggio molto affascinante.

Che tipo di lavoro registico, e in scena come attrice, è stato?

Rosellini: In sottrazione, trattandosi di una parola molto presente e complessa. Nella compagnia da un po’ di tempo lavoriamo sull’utilizzo di oggetti quotidiani in qualche modo “stressati”, scomposti e ricomposti. Nella scatola nera che è la Sala Gassman dell’Orologio, l’unico compagno di scena sarà un bidone aspiratutto, simbolo di un femminile che Preciado sovverte, fatto a pezzi e riappiccicato quasi a comporre una mappa di quello che lei definisce regime “farmaco-pornografico”. Un altro elemento è il suono reiterato, e tutto avviene in uno spazio scenico in cui ci sono una “loop station” e un microfono, con l’idea che sia un ventre privo di contaminazioni dall’esterno. La sua figura è quella di un grande intellettuale che vive dolore, rabbia, momenti di violenza, e il rapporto con l’amico scomparso ha momenti di struggimento, infinita dolcezza e malinconia.

Manieri: C’è anche l’unione del corpo con la macchina e quindi la trasposizione plastica di un sistema post-industriale, post-fordista.

E rispetto alla riduzione e adattamento del testo?

Manieri: È stato difficile tentare un equilibrio tra il livello più fruibile, trasferibile a teatro, del dialogo serrato - in assenza - sia con l’amico morto che con la propria compagna, e la densità di una parola filosofica a partire da una pensatrice che ha nel virtuosismo linguistico uno dei fulcri del suo lavoro; abbiamo cercato, perciò, di rendere quella parola metabolizzabile e convertibile in fatto scenico, in verbo incarnato, con tempi di fruizione che sono quelli dell’oralità. Il tentativo drammaturgico ha significato inserire nella parabola emotiva quelle vertigini intellettuali come fossero frutto di un andamento plastico, piuttosto che di un’astrazione del pensiero.

Ci presentate la compagnia, “Ariel dei Merli”?

Rosellini: È nata qualche anno fa dal desiderio mio e di Francesca di iniziare un percorso comune, mettendo insieme le nostre abilità, con l’idea di poter descrivere, investigare con più attenzione il mondo femminile, non per forza fermandosi a quello. A questo nucleo si sono legate altre persone del cui lavoro siamo molto grate, e che sono Maria De Los Angeles Parrinello, da anni nostra fotografa di scena e disegnatrice luci, Elvira Berarducci, attrice e imperdibile aiuto regìa, in alcuni casi Elisa Nancy Natali, nostra “sound engineer” che sempre ci sostiene nel lavoro sul suono, per noi molto importante.

Quali sono, per voi, gli elementi più notevoli - in Preciado - sul concetto di identità di genere?

Manieri: Per quanto riguarda l’identità, credo che questo testo sia chiaramente debitore a molte pensatrici, dentro ci sono Judith Butler e un’impostazione costruttivista “queer” rispetto a quanto il genere sia costruito, imitabile, digitalizzabile, scaricabile da Internet. Nel rapporto col genere, con la propria identità, c’è una forma di autenticità violenta che a me parla molto, è il libro di un filosofo in un momento di transizione, quindi cruciale anche per questo. Ha qualcosa di vibrante, dietro c’è un’adesione, un’autenticità esistenziale molto forte, indaga l’identità in tutte quelle sfaccettature che sono anche il nostro stesso posizionarci all’interno di stereotipi di genere e la capacità o meno di abitarli, il che - nelle relazioni - crea a volte dei cortocircuiti, anche di potere. Come “plus” in generale, secondo me ha il superamento dell’analisi della bio-politica foucaultiana verso il concetto della realtà in cui viviamo, ossia un sistema “farmaco-pornografico”: qui credo che Preciado abbia segnato uno dei punti più alti della filosofia contemporanea.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34