“Naples ‘44”, docu-film di Francesco Patierno

Quando la guerra era qui. Nel documentario “Naples ‘44”, da giovedì scorso nelle sale, il regista Francesco Patierno racconta la sua città durante la Liberazione, e a lui rivolgiamo alcune domande.

Che tipo di lavoro è?

Una specie di film e di documentario che si mischiano insieme - da un libro di Norman Lewis famosissimo all’estero con lo stesso titolo - che racconta l’avventura di un inglese che si trovò per caso a Napoli al seguito della quinta armata americana e nel 1978 scrisse quello che è un testo d’amore sulla città e sui suoi abitanti.

Com’è venuto a conoscenza di questa storia, decidendo poi di tradurla in immagini?

Mio padre, raccontandomi di come fosse scampato a un bombardamento, mi suggerì “Napoli ‘44”, che raccontava molto bene di come si viveva a quei tempi. L’ho letto e ho subito avuto voglia di farne un film, perfezionando un po’ il meccanismo che avevo già collaudato nel mio “La guerra dei vulcani”, documentario sulla storia d’amore tra Ingrid Bergman, Roberto Rossellini e Anna Magnani. Ho trovato un produttore che si è entusiasmato come me, coraggioso, deciso, e siamo riusciti a realizzarlo come volevamo.

Nel libro quali le sembrano le notazioni più significative?

Una su tutte: nell’ultima pagina, Lewis scrive - dopo un anno a stretto contatto con la città - che, se dovesse rinascere, vorrebbe farlo a Napoli. Detto da un’inglese, è una frase molto potente, oserei dire politica.

Rispetto alla pagina scritta, lei su cosa ha puntato?

Prima di tutto ho voluto rispettare profondamente un testo che mi è piaciuto, e poi mi sono preso delle libertà, inventandomi un filo conduttore, la parte di finzione che lega i “flashback”. In questo senso, è come se avessi avuto il permesso dell’autore, perché ho avuto una forte complicità con la sua famiglia, sono stato nella casa nell’Essex dove ha vissuto, ho visto quanto aveva conservato e soprattutto ho avuto il privilegio di tenere per un mese a casa mia i taccuini originali, dai quali lui ha tratto “Naples ‘44”. In uno di quelli del 1978, ho trovato una nota su “Napoli milionaria”, quindi ho capito che Lewis ha fatto un po’ il mio stesso gioco, cioè anche lui aveva preso, da un film visto più tardi, elementi di finzione per raccontare la sua profonda verità.

Da dove vengono i filmati d’archivio?

Non volendo limitarmi a trovare immagini solamente in Italia, nel corso di un anno abbiamo rovistato archivi in America, Inghilterra e Francia, trovando materiale sorprendente e inedito. Abbiamo addirittura fatto sviluppare dei rulli che non avevano mai visto la luce. È stato un lavoro minuzioso.

Il documentario mostra, con potenza, una città in preda a morte, distruzione, epidemie, fame. Il che è sempre un buon contributo di memoria storica.

Assolutamente, poi io trovo - e l’ho sperimentato su me stesso - che oggi, forse per proteggerci, siamo poco sensibili alle immagini che ci vengono dai conflitti nel mondo. Immergersi in una guerra che abbiamo vissuto può far capire meglio quello che ci arriva tutti i giorni, su cui non possiamo restare indifferenti e che così riusciamo a decifrare molto meglio.

Un altro elemento forte è il punto di vista di un giovane volontario straniero a contatto con un mondo che non conosce: inizialmente distaccato e obiettivo, frequentando quell’ambiente comincia ad apprezzarlo e amarlo.

Trovo sempre che uno sguardo esterno sia più preciso nel raccontare una realtà che, per chi la vive, è troppo vicina per essere descritta fino in fondo. E poi, soprattutto, parliamo di una persona molto equilibrata che, nei confronti della città, assume col tempo una profonda empatia. Questo ha permesso a Lewis di scrivere, secondo me, il libro più bello su Napoli.

Tre sono le realtà che emergono maggiormente: una religiosità viscerale, gli scugnizzi in rapporto agli alleati e una prostituzione femminile dai dati impressionanti.

Inconsapevolmente è venuta fuori una storiografia che si distanzia da quella ufficiale, soprattutto americana. Penso che per uno statunitense sarà piuttosto disturbante vedere questo film, e in qualche modo al riguardo ho avuto già dei primi riscontri.

Riguardo l’inserimento di spezzoni di altri film?

Questo gioco di manipolazione delle immagini mi viene naturale. È sorprendente come film, scene e recitazioni con il montaggio possono cambiare senso, adattabile alla storia che si racconta. Mi piace molto, è anche divertente, e permette al film di avere un respiro maggiore. Il personaggio principale di “Napoli ‘44” si chiama Vincenzo Lattarulo, e io ho subito pensato a Totò, che infatti nel documentario lo interpreta.

In un confronto con la città odierna, quali sono i tratti di continuità e le trasformazioni?

Come tutte le grandi città, specialmente del Sud, Napoli ha delle preesistenze storiche molto forti, convive con le anime del passato. Quindi per certi versi non è mai cambiata, anche architettonicamente; per altri fortunatamente va avanti e direi - io che sono molto critico con la mia città - che forse negli ultimi due anni si vedono, culturalmente parlando, segnali di crescita, anche di un forte interesse che viene da fuori.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:29