Rezza/Mastrella al Teatro Vascello

Festeggiamenti di un trentennale. La coppia artistica Flavia Mastrella/Antonio Rezza porta in scena i suoi ultimi tre spettacoli al Teatro Vascello fino al 15 gennaio - compreso il consueto Capodanno con cena e asta al buio - e in sala il film “Milano, Via Padova” (dal 18 dicembre all’Apollo 11, da gennaio al Nuovo Cinema Palazzo). Chiediamo al “performer” Rezza di presentarci il programma.

Diamo qualche indicazione sugli spettacoli e su un filo conduttore?

A chi ci chiede quale è il più bello rispondiamo “il primo”, così - in modo virale - viene a vedere anche gli altri. “7-14-21-28” (fino al 18 dicembre, ndr) è uno spettacolo del 2009, l’inizio della deriva numerica. In “Anelante” (dal 3 al 15 gennaio, ndr) abbiamo iniziato in modo aritmetico, poi una deviazione psicanalitica involontariamente ha preso in mano noi e l’opera, e ci ha portato da un’altra parte. Noi non ci fidiamo delle prime idee, come diciamo sempre: “Le diamo ai poveri”.

Una vostra caratteristica è l’opera anti-narrativa, e non esiste un copione degli spettacoli.

Io e Ivan Bellavista - che lavora con noi da dieci anni - partiamo dallo spazio scenico che realizza Flavia, ci finiamo dentro insieme, lo viviamo per un anno, un anno e mezzo e diamo vita a ciò che poi diventa il ritmo, la musicalità, lo spettacolo finito. Quindi certe cose non vengono scritte, ma pronunciate da un corpo che si muove sfiancandosi, e questo porta a concepire altre parole rispetto a quelle del drammaturgo, che riesce a prevedere l’effetto della scrittura, in quanto è lenta. La nostra, invece, è una disciplina differente, lo sfiancamento che ci imponiamo non permette la previsione del risultato finale: sei prima impegnato a respirare, consiglio a tutti la stanchezza.

A proposito di corpi, nell’ultimo spettacolo, “Anelante”, ce ne sono diversi in scena. Come mai questa scelta rispetto al passato?

Abbiamo deciso di essere in cinque perché non riuscivamo più a fare altro, con “Fratto X” (dal 20 al 31 dicembre, ndr) si è interrotto un percorso a due e a tre. Avere altri corpi che si muovono sul palco è stata un’emozione, soprattutto per il fiato corto da movimenti di estremo sforzo, e quindi anche lo spettacolo, nella sua gestazione, ha avuto un’evoluzione completamente differente. Quello che ci interessa è vivere esperienze che non ci assomigliano, infatti “Anelante” ci darà la possibilità di immaginare opere successive con ancora più persone, quindi per noi è un passo importante.

Altra peculiarità dei vostri lavori è che sono “autoreggenti”, hanno una totale autonomia rispetto a voi che ne siete i creatori.

Certo, questo ce l’hanno detto anche quando ci siamo esibiti a New York: un lavoro così irriducibile non lo avevano mai visto nemmeno loro. Qui lo capiscono soltanto i nostri sostenitori, ancora oggi si fanno gerarchie tra arte indipendente e statale parificata.

Proprio al riguardo, siete sempre stati contro i sovvenzionamenti pubblici, in nome di una completa autonomia artistica.

Anche per una spinta vitale. Lo Stato dovrebbe mantenere aperti gli spazi e pagare il personale, non deve permettersi di finanziare un’opera, perché l’artista produrrebbe con una dirompenza minore. Questo è un dato tecnico, se si analizza il procedimento che porta alla creazione, quando non sei protetto hai una spinta maggiore. Quindi, o siamo fessi noi che abbiamo sempre rifiutato i soldi statali, oppure sono furbi gli altri. Quello che mi indispettisce è questo sottobosco di falsi intellettuali e critici che non si schierano dalla parte della tecnica pura e poi, in modo miserabile, vengono ad adorare quello che facciamo.

A cosa puntano i vostri spettacoli?

Soprattutto al nostro divertimento, che si avvicina alla libidine quando si ha un’idea che si regge in piedi da sé. È un atto altamente erotico, scavalca qualsiasi tipo di piacere, ed è il punto di partenza, come ogni episodio legato all’Arte “autoreggente”. Il più grande omaggio a chi poi la vedrà è non prevedere la sua reazione. Nell’Arte, nessuno è mai passato alla Storia perché ha realizzato un’opera condivisa con chi la guardava: chi passa alla Storia lavora per sé, e poi - la Storia - la rende di tutti.

Ci dice qualcosa anche del film?

Insieme alla Fondazione Bertini di Milano, che si occupa di disagio mentale, avevamo già girato un cortometraggio sulla follia; poi ci hanno detto che ne volevano realizzare un altro su Via Padova, dove ci sono apparenti intolleranze tra indigeni ed extracomunitari. Il lavoro è diventato un lungometraggio perché il materiale è esplosivo, incredibile, fa ridere in modo assurdo su problemi agghiaccianti. Siamo rimasti veramente colpiti dal potenziale di tragicità e comicità innescato attraverso le domande. Siccome il nostro cinema è stato per anni bloccato, abbiamo deciso di cercare le sale in assoluta indipendenza, in tutti i posti dove siamo in tournée, per proporre il film in concomitanza con gli spettacoli. È un’esperienza che auguriamo a tutti, perché in questo Paese ti viene risposto: “Siamo sotto il cappio della distribuzione ufficiale”, non ti vengono date sale che restano vuote.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:32