Cinema: i manifesti di Renato Casaro

sabato 10 dicembre 2016


Amato dai grandi registi internazionali, l’illustratore Renato Casaro - classe 1935 - ha fissato nell’immaginario, con un memorabile colpo d’occhio, decenni di promozione cinematografica. Abbiamo il piacere di incontrarlo, in quanto ospite speciale - e presidente di giuria del concorso - della XII edizione di “Ciak”, dove la sua mostra personale “Per un pugno di colori” (Santa Maria della Pietà, Cremona, fino al 29 gennaio) raccoglie oltre cento manifesti, locandine e disegni originali.

Quante sono, indicativamente, le sue opere dedicate alla Settima Arte, e quale arco di tempo coprono?

Incontabili. Quelle catalogate sono sulle ottocento, poi ci sono le minori, e tanti schizzi. Vanno dagli anni Cinquanta fino all’avvento del digitale, che mi ha fatto smettere. Ho chiuso questo rapporto bellissimo senza rimpianti, il digitale non è all’altezza rispetto a quello che abbiamo espresso noi illustratori di cinema. La nostra è un’opera appassionante, che i giovani accolgono molto volentieri, anche stupefatti dalla tecnica.

Com’era cominciato?

Il Cinema è da sempre un amore viscerale, che porto da bambino, quando l’unico divertimento era entrare in sala e stare tutto il pomeriggio a vedere due-tre volte lo stesso film, come i vari Tarzan. Là è nata la passione, e soprattutto - con il naso all’insù - lo studiare e l’innamorarsi degli “affiche”, i manifesti che allora erano l’unico veicolo pubblicitario. A diciotto anni ero già nell’ambiente, cominciavo a operare nel settore.

Lei è stato un autodidatta?

È un mestiere, un’arte che non ti insegna nessuno, non la puoi imparare nelle scuole, ti possono solo aiutare gli studi che fai esaminando gli altri artisti che stanno nel firmamento del Cinema come Norman Rockwell, famoso illustratore americano che ha operato molto. Da lì è partito lo sviluppo della tecnica.

Che strumenti utilizzava?

Agli inizi solo tempera e pennello, perché abbastanza veloci: i primi lavori erano quasi impressionisti, anche perché era lo stile del periodo, il mercato richiedeva quel genere. Poi, pian piano ho perfezionato la tecnica, portandomi verso il foto-realismo, e quindi mi sono aiutato anche con l’aerografo, che nell’ambito del cinema io ho usato per primo, studiando i lavori degli artisti giapponesi e americani.

Il primo successo internazionale è stato il manifesto per il film “La Bibbia”, nel 1966, produzione Dino De Laurentiis?

È stata una fortuna avere l’incarico di preparare quell’immagine, il manifesto doveva andare a Los Angeles, sul Sunset Boulevard, dove si usava mettere - alle prime dei film importanti - dei tabelloni giganti, dieci metri per cinque. Ebbi il piacere di vedermeli affissi in quel mondo già sognato del cinema americano, avevo raggiunto il primo gradino molto importante.

La sua carriera comprende anche due grossi filoni, uno legato alla cinematografia di Sergio Leone, l’altro ai film del duo Bud Spencer/Terence Hill.

Sono stati moltissimi i filoni in cui mi sono infilato dentro. La fortuna di aver avuto Bud Spencer e Terence Hill è stata la possibilità di giocare per diversi film, un lungo lavorarci sopra e avere un particolare rapporto anche con loro due, per cui - anche se in maniera superficiale - sono finito per entrare nel loro spirito, nella loro anima, a captare la loro sintesi. Con Sergio Leone particolarmente ho avuto un bel rapporto, con un paio di suoi film importanti: per “C’era una volta in America” fu una campagna pubblicitaria molto riuscita, lui ne era molto entusiasta, venne usata in tutto il mondo. È stata una frequentazione amichevole, anche con stimoli che lui mi poteva dare da persona di cinema quale era. Poi mi ha chiamato per gli “storyboard” di un film western che stava preparando, ma purtroppo è venuto a mancare.

I lavori li sceglieva lei?

Mi venivano commissionati, avevo una clientela affezionata. Quando hai uno come De Laurentiis, che magari ha due film importanti in listino, non puoi rinunciare a un suo titolo minore. Quindi, nel fare anche qualcosa che non vorresti ci metti lo stesso impegno, per cui certe volte è successo che un film secondario ha avuto una pubblicità molto accattivante.

Le più grandi soddisfazioni?

Una domanda imbarazzante, perché i lavori sono parecchi. Direi tutti, perché per un motivo o per l’altro ognuno ha una storia a sé, più o meno riuscita. È sempre una creatura tua, per cui è difficile fare una selezione. Però direi che con gli ultimi, con la tanta esperienza, con lo sviluppare la tecnica, e anche con le idee, il genere sia molto migliorato. Quindi, preferirei dire che sono i migliori. Potrebbe essere “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci, “Nikita” di Luc Besson, “Opera” di Dario Argento: insomma, tutti da elencare, c’è tanta roba.

Qual è la sua attività, ora?

Essendo un amante dell’Africa, dove ogni anno sto un mese, ho deciso di dipingere grossi animali. È un mercato abbastanza aperto, ricettivo, per cui mi sono trovato molto bene. Non dipingo per un fatto economico, ma solo per me, è uno sfogo personale, dove posso fare senza avere legami.


di Federico Raponi