Icar e l’animazione   che infrange i tabù

Non per tutti l’infanzia ha rappresentato l’età del sogno e della spensieratezza. Non è stato così neanche per Icar. “La mia vita da zucchina”, capolavoro d’animazione francese – premiato ai Festival di Annecy e San Sebastián e riconosciuto “Film della Critica” dal “Sindacato nazionale critici cinematografici italiani”, prima volta per un film di animazione (da domani nelle sale italiane) – nasconde dietro un titolo buffo un coacervo di emozioni che non sfuggono ad un pubblico, piccolo o adulto che sia, capace di “sentire”. Niente effetti speciali, niente supereroi, solo pupazzi animati in stop-motion con grandi occhioni e una storia commovente da raccontare, atipica certamente per il cinema di animazione tradizionale.

Il film di Claude Barras trae spunto dal libro “Autobiographie d’une Courgette” di Gilles Paris, che riesce a dosare bene nel racconto il giusto equilibrio tra dramma, speranza e allegria, equilibrio che il film mantiene senza scadere in inutili sentimentalismi.

La storia di Zucchina non è quella di un ortaggio, bensì quella di Icar, un bambino di 9 anni che vive in una mansarda di periferia con una madre alcolizzata. Un giorno, per sfuggire alle percosse della madre, le chiude in faccia la botola della mansarda. La caduta dalle scale le sarà fatale. Icar verrà condotto da un poliziotto “buono” in una struttura di accoglienza, una casa famiglia che ospita già Simon, Ahmed, Jujube, Alice e Béatrice. Hanno tutti una storia di sofferenza o di abbandono alle spalle (genitori drogati, violenze domestiche...) che li rende aggressivi o inermi. E poi arriva Camille, anche lei con un grande fardello di dolore sulle spalle. Ma è insieme che questi bambini, nonostante i traumi e i soprusi subiti ritrovano la forza e la gioia di vivere. Ed è lì che Icar conosce l’amore, quello per Camille, un amore puro, quello che a lui è certamente mancato. Della madre conserva una lattina di birra vuota, del padre - che non ha mai conosciuto - un aquilone con un supereroe da un lato e dall’altro una pollastrella, probabile ragione della sua fuga. Nonostante le occhiaie, gli assistenti sociali, l’angoscia e il “grigiore” tipici di certi contesti, l’happy end è garantito.

“La mia vita da zucchina” è un film che decide di infrangere i tabù del politically correct, per raccontare una storia emozionante e aprire uno spaccato sulle famiglie disastrate e sulle strutture di accoglienza per minori, non solo e non necessariamente luoghi oscuri di detenzione, ma anche spazi di accoglienza in cui è possibile riscostruire una propria identità ed emotività, pur nella perdurante speranza di una vita al di fuori. Un film profondo raccontato con estrema delicatezza.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34