“Lehman Trilogy”, l’intervista a Gifuni

La parabola di uno dei simboli mondiali dei cosiddetti “poteri forti”. Il Teatro Argentina (a partire da oggi fino al 18 dicembre) ospita lo spettacolo “Lehman Trilogy”, tratto dall’omonimo libro di Stefano Massini, ultima regìa di Luca Ronconi, suddiviso in due parti. Ce lo presenta Fabrizio Gifuni, uno dei dodici attori di un importante cast in scena (in ordine di apparizione: Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Martin Ilunga Chishimba, Paolo Pierobon, Fabrizio Falco, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti e Laila Maria Fernandez).

Inquadriamo storicamente la narrazione?

Oltre centosessant’anni di storia del capitalismo occidentale visti attraverso quella che è diventata - nel bene, e soprattutto nel male - una delle banche d’affari più importanti del mondo, la Lehman Brothers, che crollò nel 2008, e la storia della famiglia. Si seguono tre generazioni, a partire dai tre fratelli-pionieri Henry, Emanuel e Mayer, che alla metà dell’Ottocento da Rimpar - piccolo paesino della Baviera - arrivano in Alabama e aprono un piccolo negozio di stoffe. Nel giro di pochi anni arrivano alla compravendita del cotone, inventandosi un ruolo di mediatori acquistano dalle piantagioni per rivendere ai dettaglianti. Si passa poi al caffè e al petrolio, fino all’apertura della prima grande banca d’affari. Le ultime due generazioni segnano il passaggio dalla “holding” alle finanziarie, alla smaterializzazione cui abbiamo assistito: non esistono più le merci. Quando si crea Wall Street, i fratelli rimangono sbalorditi da questo posto in cui stanno il ferro, la stoffa, il carbone; c’è tutto ma non c’è niente, soltanto i nomi, perché iniziano le azioni e nasce il mercato della Borsa. La scesa in campo dei “trader”, gli ultimi squali, ci portano quindi al contemporaneo.

Che tipo di racconto ha costruito il drammaturgo Stefano Massini?

Ci ha detto di averci lavorato quattro anni, facendo un’attività di ricerca molto importante e cercando poi di sintetizzarla col linguaggio del teatro e della poesia, perché non era nato come testo teatrale puro. Il libro è stato da poco ripubblicato in una versione integrale, con materiali originali aggiuntivi rispetto a quella iniziale, e al lettore si presenta come una sorta di poemetto epico, una specie di flusso ininterrotto di parole che potrebbero essere pronunciate da un unico narratore, nel nostro caso da dodici. A questa grande opera si è aggiunto quindi il lavoro che Massini ha curato insieme a Ronconi, il contributo del quale ovviamente è stato decisivo nel creare una drammaturgia, e quindi anche una distribuzione delle parti.

A questo proposito, entriamo più nello specifico dell’idea e della realizzazione di Luca Ronconi?

Un po’ come aveva fatto nel “Pasticciaccio”, ciascuno di noi lavora continuamente a far apparire e scomparire il personaggio tra la prima e la terza persona, in parte li raccontiamo e in parte li agiamo, in un gioco teatrale di estrema purezza e semplicità. Anche la regìa - lo dico col senno di poi: non casualmente, nessuno di noi sapeva che sarebbe diventato il suo ultimo grande allestimento - è particolarmente essenziale. Lo spettacolo è diviso in due parti, “Tre fratelli” la prima e “Padri e figli” la seconda; l’una è una scatola bianca, senza un cambio di luci, una musica, soltanto con gli attori, mentre l’altra è un pochino più elaborata dal punto di vista registico, ma rimane molto semplice rispetto agli impianti a cui Ronconi ci aveva abituati a partire dal 1968, dall’“Orlando furioso” in poi passando per “Gli ultimi giorni dell’umanità”. Qui è come se lui si fosse concentrato unicamente sul testo e sul gioco d’attore. Si tratta di una grande idea, bellissima, tradotta con altrettanta leggerezza e ironia. E ha conquistato il pubblico ad ogni replica, proprio per il fatto che uno si aspetterebbe uno spettacolo corposo che tratta di finanza, e invece scopre grande ritmo e humor.

Che esperienza è stata per voi attori?

È uno spettacolo che colpisce, innanzitutto noi, già dalle prove, e poi - al cuore - gli spettatori, soprattutto per l’estrema essenzialità e un rigore non punitivo, ma che va tutto in una direzione di leggerezza e luminosità, una specie di piccolo incantamento. Io - l’unico della compagnia - era la prima volta che lavoravo con Ronconi; più di vent’anni fa lo avevo incontrato in accademia durante un suo seminario di due settimane, poi non ci siamo mai cercati. Quindi per me è stata una specie di chiamata anche misteriosa, perché arrivata proprio alla fine, e di cui non sarò mai abbastanza grato: è stato uno dei regali più grandi che mi siano mai stati fatti. Il lavoro è stato molto duro, disorientante, perché Ronconi stava davvero cercando una strada per questo spettacolo. Non sapeva ancora se la macchina avrebbe retto e funzionato, e noi di conseguenza non capivamo nulla di quello che aveva in testa. Era come se poi si disvelasse lentamente, soprattutto a partire dalle repliche. Ancora oggi, che lo riprendiamo dopo un anno e mezzo, si chiariscono via via degli elementi anche nel nostro corpo e nella nostra testa; mentre andiamo in scena ognuno di noi illumina delle porzioni di testo capendole dall’interno, e comprendendo dove Ronconi era andato a parare. Un grandissimo lavoro teatrale.

(*) Per info e biglietti: Teatro di Roma

Aggiornato il 17 giugno 2017 alle ore 16:19