“Fai bei sogni”, ottima la regia di Bellocchio

È l’Italia di fine anni Sessanta: la televisione in bianco e nero trasmette “Canzonissima”, Raffaella Carrà mostra il suo ombelico davanti ai telespettatori e tra le serie più in voga del momento c’è Belfagor. A Torino Massimo è un bambino come tanti. Trascorre le sue giornate tra la scuola, le passeggiate e i balli con l’adorata madre. Poi di botto il buio, la solitudine, la difficoltà di un vuoto inquietante, improvviso, inspiegabile. Ma soprattutto incolmabile.

Liberamente ispirato al romanzo autobiografico “Fai bei sogni” di Massimo Gramellini, successo editoriale del 2012, l’omonimo film di Marco Bellocchio ripropone il racconto di Massimo, della sua dolorosa perdita della madre, quando aveva solo 9 anni, e delle ripercussioni profonde che questo avvenimento ha avuto sulla sua vita in cui, pur essendo divenuto un noto giornalista, ha finito per sentirsi sempre e soprattutto un orfano.

Si riconosce la mano del regista di Bobbio nella rabbia di Massimo bambino (lo straordinario Nicolò Cabras) che nega la morte della mamma (“voglio vederla, non può essere andata via così senza neanche salutarmi”), batte i pugni, si rifiuta di assistere al funerale nella certezza che lei potesse tornare. Poi, più grande, racconta ai suoi compagni che sua madre vive oltreoceano, pur non dandosi interiormente pace. Straordinario lo scambio di Massimo ormai adolescente (Dario Dal Pero) con il prete professore (l’immenso Roberto Herlitzka) che replica al ragazzo “il se è il marchio dei falliti, in questa vita si diventa grandi nonostante”, che racchiude un po’ il senso di tutta l’opera. Massimo infatti diventerà grande nonostante il vuoto che lo accompagna nel proprio quotidiano, nonostante l’assenza, nonostante i silenzi, nonostante sia incapace di amare e lasciarsi amare da una donna, nonostante il suo animo sia ancora sanguinante per l’abbandono subìto, nonostante il silenzio sulla morte di sua madre pesi come un macigno. Solo una volta Massimo, adulto, ormai affermato giornalista, riesce a lasciarla andare. Ed è solo attraverso l’accettazione della perdita e l’attenuarsi della rabbia che Massimo (Valerio Mastandrea) riuscirà a ricostruire la propria vita e la propria affettività.

Un film che nelle oltre due ore di durata a volte sembra quasi perdersi, ma che poi ritrova una forza estrema in alcuni momenti, in alcuni squarci che Bellocchio carica di significato. Un film che trasuda emozioni, dove gli sguardi risultano a tratti più eloquenti di mille parole. Il tema del rapporto madre-figlio rappresenta un topos caro a Bellocchio che ritorna in quasi tutte le sue opere. Il regista di “Fai bei sogni” è certamente molto diverso, molto più maturo di quello de “I pugni in tasca”, suo lungometraggio di esordio del 1965, in cui la madre veniva uccisa dal protagonista. Oltre ai nomi noti di Mastandrea e di Bérénice Bejo, la seducente francese che interpreta un ruolo minore nella narrazione, straordinaria l’interpretazione di Barbara Ronchi nei panni della mamma di Massimo e di Fabrizio Gifuni nel piccolo ruolo di un imprenditore simil Gardini. Prodotto da Beppe Caschetto e Rai Cinema, il film, sceneggiato dal regista con Valia Santella ed Edoardo Albinati e presentato a Cannes la scorsa primavera, è in sala dallo scorso 10 novembre.

Aggiornato il 17 giugno 2017 alle ore 16:20