“Ragazzi di vita”  al Teatro Argentina

Un “terremoto” per Pasolini. Tale è stata la (debole) appendice romana della scossa 5.9 della scala Richter delle ore 21.15, quando al Teatro Argentina era appena iniziato lo spettacolo “Ragazzi di vita” (in scena fino al 20 novembre), tratto dall’omonimo romanzo di Pier Paolo Pasolini per la regia di Massimo Popolizio, la drammaturgia di Emanuele Trevi e con Lino Guanciale come voce narrante. I brusii dalla platea sono iniziati quando il pesante lampadario della volta ha iniziato pericolosamente a oscillare: sospesa la rappresentazione e rivestiti gli ignudi (attori) si è atteso - senza panico, a onore e merito del pubblico intervenuto alla prima - il tempo necessario per capire che, in fondo, era “tutto a posto”! Sicché il “mucchio selvaggio” (diciotto giovani attori con le loro energie e le voci sopra le righe) si sono addensati a gruppi, come accade a certi composti chimici che si separano dal siero in cui sono immersi, per iniziare, ognuno a suo modo, a raccontare storie. Ciascuno ventriloquo di se stesso: solo la voce univa l’attore all’auto narratore della propria storia, che agisce in parallelo al cantastorie principale; una sorta di filo di Arianna il cui compito è di portare in teatro la materia poetica dell’opera.

Lo spettacolo non fa paragoni con le periferie delle grandi e medie città italiane che, da cinquant’anni a questa parte, hanno rappresentato la lebbra cementizia moderna, fucina di emarginazione, droga e malavita, e che continua a generare mostri urbani senza umanità e personalità destinati a restare luttuosamente in piedi per decine di generazioni a venire! Colpa del mio amatissimo Le Corbusier, che con le sue “mega-stecche” lineari e le tipologie facilissime da imitare, e stratosfericamente economiche da edificare, ha consentito agli speculatori edilizi di tutto il mondo di diffondere la loro lebbra (senza cultura, né qualità, né rispetto per gli spazi collettivi) ovunque esistesse un terreno edificabile! Infatti, come ha messo in luce Emanuele Trevi, “la parola fine alle borgate è arrivata con la giunta guidata da Luigi Petroselli. Da allora, è di nuovo emergenza antropologica e urbanistica, a causa dello sviluppo tumorale dell’edilizia”. La vera differenza tra questa rapina organizzata (e globalizzata) del territorio di tutti e le borgate pasoliniane è semplice: la prima è frutto della mafiosità endemica del sistema, che mette assieme politica, banche e imprenditori senza scrupoli; mentre le seconde sono il frutto di un necessitato e indispensabile “fai-da-te”.

Come ha evidenziato Dacia Maraini all’atto della presentazione dello spettacolo, “Pasolini ha operato una sorta di mimesi linguistica dal friulano al romano, indovinando un’immagine della città (le borgate) ex fascista: per venire a Roma ci voleva un permesso speciale e gli operai costruirono delle baracche pur di restare in città [...] Eppure, qualcosa ritorna ad assomigliare alla società di allora: il fatto che ci siano tanti più poveri significa che la forbice si dilata sempre di più, visto che l’Italia è un Paese ricco”. Una sorta, quindi, di rinascita del Lumpenproletariat. “Ma - ha aggiunto la Maraini - Pasolini aveva uno humor sottile. Il torto dei suoi estimatori è stato, quindi, di caricare troppo l’aspetto ideologico [...] Pasolini aveva una leggerezza fiabesca connotata da sorpresa, candore e stupore che precedono la battaglia”.

Così, in scena, gli scarsi e malandati mezzi pubblici (le “circolari” dell’epoca) esplodono di popolo carnale e di cattivi odori, con scippo incorporato; mentre le nuotate nelle acque luride dicono tutto di quel mondo semplice e pericoloso, dove il “Riccetto” rischia la vita per salvare un rondone intriso d’acqua. Poi, quell’Aprilia rubata, che diviene un sarcofago in lamiera per i balordi di borgata che se ne sono appropriati.

Ci dicono i suoi “ricombinatori teatrali” che Pasolini è autore canoro e leggero, non torbido. Non si rappresenta la sofferenza: le parole servono a far vedere. Come Pasolini studia la lingua del Belli, così lo spettacolo parte dal corpo dell’attore e crea sketch, situazioni straordinarie e comiche. Perché delle due polarità possibili il lato disperato è monologico, mentre quello plurale degli uomini che si incontrano genera una sottile ironia, in cui è possibile sognare il sogno di un altro. Il dialetto romano diviene un punto di forza simbolico ed espressionista detto in una terza persona, che pone lingua e interpretazione al centro dello spettacolo in modo da adattare la scena alle figure e non ai personaggi. Il tutto immerso (con le sue tragedie) in tre acque: Tevere, Aniene e Ostia, con le sue baldracche e i bulli in cerca di guai. Dato che il libro non ha storia, l’amore per il corpo dell’attore fa sì che le diverse figurazioni collettive riconducano a situazioni precise.

“Accattone - ha detto Popolizio - non si rifà in teatro: lo si può solo resuscitare [...] Occorre agire con incoscienza rifiutando qualsiasi trasposizione nella fiction, al fine di operare un presa dialettica dialogica, dove la narrazione in terza persona (letteratura) ti dà molta libertà che diventa teatro vivente e vitalità grazie ai giovani. Ma i ragazzi di vita sono già una cosa vecchia. Questo non è uno spettacolo giovanilistico, energetico, perché è impossibile essere felici. La parola vita è tenuta assieme da un filo canoro: i ragazzi cantano Claudio Villa in karaoke, intonando con passione strofe melodiche delle canzoni di allora”.

Ma è bene che, vedendo lo spettacolo, ognuno provi a tradurlo a modo suo, dopo aver rigorosamente letto prima il libro!

(*) Per informazioni e biglietti: Teatro di Roma

(**) Foto di Achille Lepera 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34