Re Lear: l’intervista  a Luigi Tabita

È in scena dall’11 al 16 ottobre al Teatro Franco Parenti di Milano, a conclusione di una fortunata tournée che ha toccato anche Catania, Napoli e il Globe Theatre di Gigi Proietti a Roma, un Re Lear per la regia Giuseppe Dipasquale. Nel ruolo del tirannico, permaloso e poco saggio sovrano raccontato da William Shakespeare è Mariano Rigillo, mentre in quello di Regana, una delle perfide e irriconoscenti figlie maggiori di Lear, troviamo Luigi Tabita. Attore a tutto tondo, diplomato alla Scuola d’Arte Drammatica “Umberto Spadaro” del Teatro Stabile di Catania, con un curriculum di tutto rispetto che lo ha portato a spaziare tra palcoscenico e piccolo schermo, alternando prosa, teatro musicale e opera - senza dimenticare l’impegno civile (che può essere corollario di un mestiere pubblico come il suo) - Luigi Tabita ha accettato di raccontare per i lettori de “L’Opinione” le particolarità di questo allestimento.

Il vostro Re Lear è tornato per la seconda stagione consecutiva in scena, e sempre con un gran successo di critica e pubblico

Sì, abbiamo debuttato la scorsa stagione, con questa co-produzione del Teatro Stabile di Catania e del Teatro Stabile di Napoli che ha un taglio molto particolare. Nella storia di questo padre che divide il proprio regno tra le figlie la chiave è stata il mostrare come il potere possa trasformare e deformare le persone. In una messinscena estremamente raffinata dal punto di vista visuale, con un bellissimo progetto luci che ricorda i quadri di Caravaggio (a firma di Franco Buzzanca, ndr), Giuseppe Dipasquale ha avuto l’idea di far interpretare le figlie cattive a due uomini.

Un omaggio alla tradizione elisabettiana degli attori uomini che interpretavano i ruoli femminili?

Se così fosse stato anche Cordelia sarebbe stata interpretata da un uomo. Al contrario: la sua visione era che le due principesse-donne man mano, durante lo sviluppo della vicenda, diventano uomini ma nell’eccezione peggiore. Si inebriano del potere e diventano sempre più crudeli.

Non c’era il rischio che potesse sembrare un riferimento negativo verso le donne o sessista?

No, c’è in questa scelta registica una critica specifica alle donne che, diventando donne di potere, si mascolinizzano, come se vestirsi e comportarsi da uomo desse più autorevolezza. Un pericoloso retaggio di una cultura patriarcale, sessista come d’altronde sessista è questo atteggiamento.

Il teatro ha ancora la capacità di smuovere le coscienze, di far riflettere?

Ne sono convinto. Ho deciso di accettare questa sfida attoriale anche e forse proprio perché io mi occupo tutti i giorni di diritti civili e pari opportunità. Sono l’ideatore e il direttore artistico di un festival a Noto che si chiama Giacinto, una rassegna di informazione e approfondimento sulle tematiche Lgbt, e penso davvero che oggi più che mai non abbia senso fare teatro solo per farlo. Stiamo vivendo un momento di grande crisi e credo sia giusto fare spettacoli dove si possa riacquistare quel valore di denuncia che aveva il Teatro, quando era con la T maiuscola.

Perché queste operazioni che hanno voglia di far riflettere il pubblico hanno spesso bisogno dei classici per farlo?

Shakespeare, insieme alle grandi tragedie greche, sono dei must assoluti. Hanno trattato di tutto, portato in scena tutti gli istinti dell’uomo, tutte le difficoltà, le esperienze umane. È tutto racchiuso in queste storie. Ed oggi c’è anche una grande difficoltà nel trovare nuove drammaturgie interessanti. Inizialmente pensavo non ci fosse interesse nel far crescere giovani autori, ma invece ci sono moltissimi festival, solo che paradossalmente mancano autori che scrivano per professione. Si è persa l’abitudine a scrivere. E quando esistono e scrivono, scrivono soprattutto commedie.

Il vostro Re Lear è stato presentato anche ad un pubblico di giovani, alle scuole. Come hanno reagito i ragazzi?

La risposta è stata forte e per certi versi inaspettata. Forse perché il tema dell’ingratitudine ha la capacità di raggiungerli, forse perché si sono appassionati e parteggiato per i personaggi “cattivi”, ma hanno sempre seguito con attenzione e in un silenzio quasi religioso, partecipando con emozione a quello che accade sul palco.

I ragazzi parteggiano per i cattivi, ma anche per un attore, non è più divertente interpretare un personaggio negativo?

Nella vita io sono un buono, ma in scena mi capita molto più spesso di interpretare cattivi, anche per via della mia fisicità. Sono alto, ho la voce profonda, e quindi finiscono per farmi fare sempre i cattivi. Però va bene così, in definitiva sono davvero sempre loro i personaggi più affascinanti, come nel caso di Regana. Ma Re Lear, in ogni modo, è comunque uno spettacolo molto faticoso perché quando fai una commedia la risposta è immediata, alla battuta segue la risata, mentre in una tragedia non succede, non hai un ritorno immediato, devi saper “tenere” emotivamente.

Come hai trovato la chiave per interpretare Regana?

Regana è una donna forte e seduttiva, ma ad un certo punto prende coscienza di andare verso una deriva, verso la propria rovina ed è di conseguenza, sicuramente, uno dei ruoli più belli e complessi che abbia avuto modo di affrontare. Quando studio un personaggio faccio un lavoro di ricerca profondo, complicato in questo caso dal fatto che non eravamo en travesti, non abbiamo parrucche, non siamo “donne”... e quindi sono andato a documentarmi sugli insegnamenti di Méi Lánfāng, il più famoso attore dell’Opera di Pechino apprezzato da Brecht e Stanislavskij. Lui aveva la capacità di evocare le grandi regine cinesi, che diventavano “vere” grazie alla sua arte e nei suoi gesti, anche se lui in realtà era un omino in frac. E poi c’è un altro lavoro che faccio da sempre, ed è trovare il profumo che mi aiuti a indossare un ruolo insieme al costume di scena, a diventare “altro da me”.

Un modo proustiano di bypassare la mente razionale e rispondere direttamente a uno stimolo. Per Regana che profumo hai trovato?

Ne ho provati tantissimi prima di scegliere. Volevo qualcosa di fiorato, regale, antico; ho pensato prima all’orchidea ma non era giusta, la violetta men che meno e alla fine, in una erboristeria di Catania, una vecchina mi ha dato una boccetta con l’essenza di tuberosa. Quando l’ho sentita è stato un colpo di fulmine e mi sono detto: “Eccola, Regana è lei”.

Voi starete in scena fino a domenica 16 ottobre al “Franco Parenti”

Sì, finiamo con Milano questa tournée e poi riprenderò a febbraio con un altro classico di Shakespeare, Macbeth, prodotto dallo Stabile di Palermo.

Ormai è un appuntamento fisso col Bardo?

Le parole sono importanti. Restituiscono la realtà ma hanno anche il potere di cambiarla, quindi è importante che si utilizzino le parole giuste per dire certe cose, e con William Shakespeare un attore è sempre nella proverbiale “botte di ferro”. Questo poi avrà anche il valore aggiunto dell’adattamento di Vincenzo Pirrotta. Non vedo davvero l’ora di cominciare perché so già che sarà un’altra bellissima sfida.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:29