L’Islam radicale visto dal teatro

La scoperta di una fede in nome della quale partire per una guerra lontana contro il mondo in cui si è cresciuti. Questo il meccanismo indagato da Prima della bomba, spettacolo di Roberto Scarpetti, diretto da Cèsar Brie, in prima nazionale al Teatro India dall’8 all’11 settembre. Proprio ad autore e regista abbiamo rivolto alcune domande.

Com’è partito il progetto?

Roberto Scarpetti: dopo aver portato a Roma nell’autunno 2014 Viva l’Italia, le morti di Fausto e Iaio, l’altro mio spettacolo diretto da Cèsar, con lui abbiamo cominciato a pensare ad un nuovo progetto. Gli ho proposto l’argomento del terrorismo islamico, dei “Foreign fighters”, perché quell’estate c’erano state le prime decapitazioni di prigionieri occidentali da parte dell’Isis. In occasione di quei video si cominciò a parlare del combattente dal chiaro accento britannico, e quindi del fenomeno degli europei che si convertivano all’Islam, diventavano radicali e partivano per la Siria per unirsi all’esercito dell’Isis.

Per la scrittura, i riferimenti sono stati la cronaca e la letteratura - non solo teatrale - che può rimandare a quest’attualità?

R.S.: l’idea partiva sicuramente dalla cronaca, ma soprattutto dalla domanda: perché gli occidentali si convertono all’Islam? Questo porta il testo su un piano diverso da quello del terrorismo. Nel concepimento ci sono stati dei riferimenti alla letteratura, teatrale e non, però poi i fatti avvenuti in Europa sono stati talmente drammatici e forti che in qualche modo sono entrati nello spettacolo, ma anche nelle decisioni produttive, perché a un certo punto sembrava che non potesse essere più realizzato. Dopo gli attentati di Bruxelles del 22 marzo Cèsar ha deciso di farlo comunque, coinvolgendo gli attori, che in parte erano gli stessi del nostro lavoro precedente. Poi Campo Teatrale ci ha ospitati, Teatro di Roma è rientrato nella produzione e adesso viene presentato in questa formula, con la collaborazione di Short Theatre.

Come funziona questo rapporto autore-regista che avevate già sperimentato?

Cèsar Brie: lavorare così è un sogno. Ci siamo conosciuti nello spettacolo precedente, dove abbiamo fatto una specie di piccola lotta sui tagli e abbiamo trovato un equilibrio. Roberto è molto preciso nelle parole che usa, e quindi giustamente difende i concetti dietro di esse, e io - che sto attento alla scena - penso: avanzano parole, questo è già detto con le azioni. Tutto questo, che è stato un banco di prova in Viva l’Italia, in Prima della bomba è diventato metodologia. Roberto è venuto a un seminario in cui abbiamo cercato immagini sul tema ed è stato dal primo all’ultimo giorno nelle prove, proponendo lui riduzioni, tagli e inversioni. È stato un dialogo fecondo, l’autore individuava soluzioni diverse, suggeriva, è diventato anche lui collaboratore e in parte regista.

Scivendo il testo, Scarpetti aveva già in mente la messinscena oppure è stata una visione comune?

C.B.: è nata nel lavoro. Inizialmente avevamo pensato di usare dei video, con grandi teli di plastica che fungevano da schermi, tutti elementi che, nel momento in cui abbiamo affrontato da soli l’inizio della produzione, sono venuti meno. Poi è apparsa l’idea fondamentale che ha cambiato tutto: un gigantesco tappeto da preghiera che delimita e sistema l’intera scena.

Cosa ha individuato nella mente di quei giovani?

R.S.: cerco di entrare nella testa del convertito che si radicalizza, senza andare a giustificare l’atto che compie (e che è l’inizio della storia, poi tutto viene raccontato a ritroso), perché mi interessa raccontare come sia difficile, in Occidente, in una società sempre più globalizzata e uniformata negli stili di vita e nelle modalità di pensiero, affrontare una crisi personale che può portare in qualche maniera a un’apertura verso la sfera della spiritualità. Quindi la domanda è: qual’è lo spazio che ci è dato, oggi, in Europa, verso lo spirituale? Tutta la seconda parte dello spettacolo parla di questo, entrando nella testa di Davide, il protagonista.

A proposito di spiritualità: quanto conta l’immagine simbolica, la rappresentazione, nei video dell’Isis, rispetto alla scelta che fanno i “Foreign fighters”?

R.S.: vivendo noi in una società fondata sull’immagine, questa conta molto. Nei materiali informativi dell’Isis le immagini, raccontate, rimandano ad altro; dovendo mettere in scena anche un reclutatore, ho letto pure dei loro depliant, e mi ha colpito il fatto che puntassero molto l’attenzione su un discorso che porta poi a un’immagine precisa che appartiene all’Occidente: l’Olocausto. Per far colpo sugli europei, con una comunicazione mirata appositamente, raccontano quello che avviene in Medio Oriente come un grande Olocausto del nuovo millennio, dove le vittime sono gli arabi e i carnefici, i nuovi nazisti, gli Stati Uniti. Questo è un punto fondamentale della loro propaganda.

Aggiornato il 17 giugno 2017 alle ore 16:16