Pubblicità commerciale e società mercificata

venerdì 5 agosto 2016


Ci si indigna di rado e troppo poco. Ad ogni modo è bastata l’immagine choc di una donna a terra con i pantaloni abbassati, con le mani che premono l’asfalto ed a gambe divaricate a pubblicizzare una marca di scarpe, per indignare il web ed il mondo dei cosiddetti social network.

Ben venga ma, come dicevamo, ci si indigna troppo poco per l’uso ed abuso della pubblicità commerciale che, lungi dall’essere una forma di arte creativa, è l’espressione massima della società commerciale e mercificata imposta dal mondo mediatico e mediocre che, non a caso, ha contribuito – assieme all’imbarbarimento dell’istituto scolastico, svenduto al privato ed alle mere logiche economicistiche sull’onda degli istituti scolastici d’Oltreoceano che tutto hanno prodotto salvo che cultura – ad appannare la vera ed autentica arte: da quella Sacra a quella profana, da Michelangelo a Gauguin passando per il nostro Leonardo da Vinci. L’arte che decantava la natura, l’essere umano, il vero, il buono e il bello.

Un messaggio che veicola un prodotto non può, per la sua stessa funzione, essere considerato una forma d’arte. Peggio ancora se il messaggio commerciale-pubblicitario rappresenta una donna o comunque una persona che sembra sia stata stuprata, come nel caso di cui sopra. Che poi l’immagine sembra quasi suggerire che ad essere stuprate, peraltro, siano le menti di chi guarda e di chi acquista, attraverso il veicolo del messaggio commerciale-pubblicitario che tende, appunto, a suggerire bisogni indotti di cui, altrimenti, non avremmo alcuna reale necessità.

È il caravanserraglio dell’effimero, del “reality”, del “social”, ove ogni rapporto e ogni atto è relegato alla compravendita, ad una manifestazione ragionieristica di “dare-avere”, ad amicizie fasulle, a prodotti voluttuari di cui non sapremmo che farcene se dietro ad essi non fosse costruito un “mondo effimero”, appunto, creato da appositi operatori pubblicitari e del merchandising, novelli lobotomizzatori di una società capitalistica che non conosce il sentimento, l’amore, la stabilità e la profondità dei rapporti, ma rincorre il desiderio, il piacere (sino a raggiungere immagini che, pur di scioccare, raggiungono il dolore estremo), l’effimero, il fuggevole, l’instabile. E questo in ogni ambito: da quello lavorativo (la flessibilità del lavoro, imposta ormai tanto dai governi di destra che di sinistra) a quello sentimentale (con tanto di reality show, spesso importati da Oltreoceano, che sdoganano l’infedeltà di coppia) sino all’omologazione del pensiero, alla mediaticizzazione di ogni atto della vita quotidiana (i famosi “cinque minuti di celebrità” tanto decantati da Andy Warhol, capostipite della società dello spettacolo in salsa pop), ai beni di consumo sempre meno durevoli in quanto costruiti in modo tale da non essere durevoli, al fine di alimentare sempre di più la spirale del consumo e del ciclo continuo inumanitario del “produci- consuma-crepa”.

È poi naturale che, di fronte a tutto ciò, le differenze si annullino, che le identità scompaiano, che l’immigrato extracomunitario veda l’Occidente opulento come il Paese del Bengodi e rinunci ai suoi usi e costumi per snaturare se stesso giungendo nei nostri “lidi” tutt’altro che felici, bensì fasulli, effimeri e fondati sullo sfruttamento delle menti, dei corpi, del desiderio, ovvero sui bisogni indotti che uccidono i sogni di vera emancipazione e di libertà, ovvero di autogoverno e di autogestione: la base della democrazia partecipata e partecipativa.

L’ideologia del desiderio e la società del piacere, dunque, in luogo della Civiltà dell’Amore, come ho spesso scritto. L’ideologia dell’Ego e del dolore (con relativa tivù del dolore!) contro l’idea di una società di liberi ed eguali perché consapevoli delle proprie scelte, dei propri bisogni, delle proprie identità e culture. Ciò che non è riuscito a fare il totalitarismo sovietico sembra esserci riuscito il totalitarismo del capitalismo assoluto e della società mercificata. Una rilettura in tal senso di “1984” di George Orwell sarebbe più che mai appropriata. Del resto il “Grande Fratello” è, forse non per caso, uno dei realty show fra i più noti e popolari al mondo (sic!).


di Luca Bagatin