“L’Infinito Indiano”, film biodidascalico

Sapreste descrivere ciò che non ha limite, né confine? No? Allora affidatevi al film (del genere cinematografico basato sulla ricostruzione della biografia di un personaggio realmente esistito, così detto “biopic”) di Matt Brown, “L’uomo che vide l’infinito”, per l’interpretazione di Jeremy Irons (il professor G. H. Hardy) e di Dev Patel nella parte del protagonista indiano, Srinivasa Ramanujan, geniale matematico nato in una regione poverissima di Tamil Nadu, sposato secondo le tradizioni locali con una moglie bambina (che, invece, appare come sua coetanea nel film) e dominato da una madre-padrona che gli trasmette i ferrei principi di casta e i tabù inviolabili, come quello della proibizione di navigare in mare. La scelta della regia è condivisibile e interessante nella parte in cui Brown crea una corrispondenza con “l’inferiore”, il colonizzato, e il gotha della conoscenza scientifica di allora: l’inglesissimo ed esclusivo Trinity College di Cambridge dove accanto all’accademico Hardy (famoso matematico “puro” della Teoria dei Numeri) si affiancano altri geni dello stesso stampo, come John Edensor Littlewood - che dette un contributo fondamentale nello studio dei “numeri primi” (quelli che, cioè, sono divisibili soltanto per se stessi!) - e il Premio Nobel Bertrand Russell.

E quel “mediatore” neuronale (al cui vaglio, cioè, si estingue e rende priva di senso qualunque distinzione di razza, sesso ed età) è proprio Hardy, preceduto da un opulento padrone inglese che non si oppone alla partenza dall’India del suo “contabile” Ramanujan. Hardy il quale, ben al di là delle convenzioni, “fiuta” il genio e, come si fa con la polvere di coca, lo aspira fino a farne impregnare la sua mente. Perché Ramanujan sarà la sua “droga”, l’impeto soprannaturale che lo costringerà a scorgere la bellezza di Dio, pur rinnegandola cento volte, peggio di S. Pietro. E ottimamente espresso è il dramma dell’integrazione tra il “diverso” dalla pelle olivastra e i bianchi sapienti di Sua Maestà il Re. L’enumerazione delle barriere, fisiche e psicologiche, dei risentimenti, dell’invidia brutale verso il genio che abita là dove non dovrebbe, descrivono con una certa esattezza il percorso a spirale che va a minare la salute e la resistenza fisica di Ramanujan, vittima di una tubercolosi che lo porterà alla sua fine, a soli 32 anni.

Mal chiarito (seppure abbozzato) è il formidabile contributo offerto a Henry da B. Russell (espulso dal Trinity durante gli anni del primo conflitto mondiale, perché pacifista di sinistra!) alla decodificazione piena del genio dell’alieno ospite. Ma, quello che sfugge in fondo all’impeto romantico di Brown è proprio la sostanza “magica” e misterica del genio matematico: Ramanujan è la dimostrazione vivente, infatti (trattandosi di un matematico autodidatta, paragonabile al pastorello illetterato Giotto per la stessa capacità di rivoluzionare le arti matematiche del suo tempo!) della famosa citazione di Galileo per cui: “La mathematica è l’alfabeto in cui Dio à scritto l’Universo!”. Da dove viene quell’immensa creatività? La “vera” Matematica è forma pura. Per Ramunjan le scritture formali da lui elaborate sono dono della sua dea. Null’altro. Nascono già perfettamente formate nella loro immutabilità e universalità. Non debbono essere dimostrate. Anatema, ovviamente, per l’ambiente di Cambridge intriso di profondo razionalismo e illuminismo ottocentesco. Così, la collaborazione tra Hardy e Ramanujan diviene un vero calvario, per quest’ultimo, costretto a piegarsi all’esigenza di impiegare il suo pochissimo tempo di vita in lunghe, faticose dimostrazioni dei suoi risultati intuitivi. E se ne pentirà amaramente, Hardy, nel suo bellissimo pamphlet “Apologia di un matematico”, in cui confessa come l’unico, vero affetto della sua vita sia stato proprio il giovane Ramanujan.

Lasciamo dire a lui, quindi, ciò che il film non ha potuto (o saputo, vista la complessità del mondo delle forme matematiche astratte in cui si bagna con assoluta spontaneità il genio dell’indiano) come, in realtà, la “Matematica pura risulta superiore perché esplora universi inimmaginabili ed è indipendente dalla realtà fisica, a differenza di quella applicata, costretta a confrontarsi con il mondo fisico e ad obbedire alle sue leggi”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:29