Lo scultore di Wojtyla, <br / > Rainaldi si racconta

C’è un piccolo prato, recintato dall’inanimato linguaggio urbano e dai crudi ostacoli della segnaletica stradale. Sta in una piazza enorme, che si perderebbe a vista d’occhio se appunto i tanti segni presenti non la dividessero in un’infinita serie di brevi percorsi ad ostacoli nei quali ogni giorno, ogni minuto, una fiumana di gente multinazionale si riversa inconsapevole di transitare sotto i disegni tracciati nell’aria dai magici voli di uccelli che compatti ripetono nei secoli gli stessi arabeschi, tra le grandi statue romane, oltre quelle che erano grandi terme circolari, verso una delle migliori architetture moderne. Inconsapevoli di tutto, ma non della grande statua verde argento che pare accoglierli, davanti alla quale non mancano di fare un rapido gesto religioso. È la scultura dedicata a Papa Wojtyla, un’opera destinata a segnare la città ma che è divenuta, in una tempesta di veleni e discordie, un esempio significativo, un vero spaccato del rapporto italico tra arte, opinione pubblica e politica. Forse perché è l’unica grande opera d’arte contemporanea presente nella città di Roma. Un’opera creata da Oliviero Rainaldi, cui segue l’intervista sulla scultura.

Rainaldi precisa però che “non è l’unica. A Roma ci sono “La sfera” di Arnaldo Pomodoro al cortile della Pigna, in Vaticano; le porte di Igor Mitoraj alla chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri e la chiesa di Dio Padre Misericordioso di Richard Meier.

Che sta a Tor Tre Teste, non proprio nel cuore della Capitale. Invece il tuo monumento a Giovanni Paolo II si erge davanti alla Stazione Termini, in Piazza dei Cinquecento. Decine di migliaia di persone ogni giorno incrociano il suo sguardo dall’alto dei suoi 5,50 metri.

Sì. “Conversazioni” (è il nome dato da Rainaldi alla “rivista” scultura di Papa Wojtyla, ndr) in effetti può essere considerata l’opera di arte contemporanea di maggiore visibilità e presenza nel pieno centro di Roma.

Di Oliviero Rainaldi, pescarese, classe 1956, si ricorda l’imponente mostra personale del 2007 alle Sale del Mappamondo di Palazzo Venezia o quella del 2010 a Villa Aldobrandini. Sue opere sono presenti alla sede del Premio Nobel di Stoccolma, all’Onu di Ginevra, al Museo d’arte moderna di Bologna, all’Avvocatura di Stato ed al ministero degli Affari Esteri. La vicenda della statua di Wojtyla ha messo a dura prova anche una solida reputazione quale quella dell’artista abruzzese, che in un quindicennio ha realizzato gli arredi liturgici di chiese a Roma, Terni, Prato e Varsavia. Quando gli viene affidata l’opera, Rainaldi ha già lavorato per la Comunità di Sant’Egidio come per la Fondazione europea Kennedy ed è stato premiato dal Campidoglio come “Personalità europea”.

Cosa ha creato, fin dall’inaugurazione, tante polemiche che hanno coinvolto il passante, il religioso, il burocrate fino ai politici destri e sinistri? Ti era mai successo?

È stata un’esperienza nuova, stancante, intensissima, che ha richiesto nervi saldi. Sia la creazione dell’opera che resistere all’assalto che ne è seguito. In trentacinque anni d’attività devo ammettere che non avevo mai affrontato un vespaio simile. Molte persone, strutture, istituzioni mi hanno veramente sorpreso. Sarà che sono rimasto sempre molto defilato rispetto alla politica.

L’opera è stata inaugurata due volte, il 18 maggio e poi il 18 novembre del 2012, dopo 10 mesi di completamento (modifiche al mantello ed alla testa, la base più alta, interventi sulla patina e sull’illuminazione). Appena posta, era stata attaccata dalla politica, con il particolare fervore di Pedica allora Idv, dei Radicali, di Fdi, ma anche dall’allora Sovrintendente ai Beni culturali, Umberto Broccoli, dall’Osservatore Romano e poi anche dalla Cnn, che l’ha inserita tra le dieci opere più brutte.

Nessuno parlava mai in termini culturali dell’opera. Basta pensare ai riferimenti di rassomiglianze veramente fantasiose: prima con Mussolini, poi Batman e anche Berlusconi. Si respirava molta ostilità.

È il periodo della contestazione alla gestione della cultura del centrodestra, paradossalmente tanto più forte mentre venivano aperti i primi grandi musei di arte contemporanea romani, Maxxi e Macro. L’opera finisce nella massa di contestazioni al sindaco Gianni Alemanno, attaccato anche alla sua destra perché i finanziatori sono gli Angelucci, editori di Libero e padroni della sanità privata. E l’autore un artista “cattolico” che da sempre sposa religiosità e arte contemporanea.

Ero arrivato con il fonditore Adami all’inaugurazione dopo un vero tour de force per rispettare il 18 maggio, ricorrenza del compleanno e della beatificazione del papa polacco. Alla proposta della fondazione degli Angelucci in effetti avevo titubato; ma aveva prevalso in me l’idea di regalare (non ci ho guadagnato niente) alla città una statua del Papa. Invece, c’è stato anche chi ha contestato che una simile idea potesse nascere fuori dalle istituzioni.

Tanti ballon d’essai, anche i costi ambientali della fusione di 4 tonnellate di bronzo argentato...

La Cnn ha preso le distanze e chiesto scusa per i giudizi estetici espressi da un burlone che non è mai stato un critico quanto un umorista. Poi non piaceva a qualcuno l’aver dedicato, nella laica Capitale di uno Stato sorto dalla guerra al Papa Re, l’omaggio ad un capo della Chiesa. La stessa commissione del Sovrintendente Broccoli (con Buranelli, Carbonara e la Marini Clarelli) è stata molto enfatizzata forse perché a qualcuno non pareva vero di poter mettere sotto esame l’arte. Alemanno, che aveva parlato di opera suggestiva, tornò sui suoi passi evocando addirittura una proposta ridicola come il referendum popolare.

Molti giornalisti dissero all’epoca che il risultato non era stato raggiunto.

Non ho mai visto, come nel periodo tra il 2011-2012, così tante persone diventare spietate esperte d’arte.

Philippe Daverio si espresse favorevolmente, così come il Cardinal Agostino Vallini o il docente ai Musei Vaticani, Evan Longhurst, fin dalla prima posa.

“Conversazioni” è in fondo sempre la stessa, il vuoto fisico del corpo che è pienezza spirituale di abbraccio accogliente, il manto gonfiato da un vento di Spirito. Per la fretta c’erano state imperfezioni soprattutto nel montaggio dei 40 pezzi del corpo e dei 18 della testa. C’era una fessura tra corpo e testa da riparare, di 50 centimetri, che ha ricostituito il rapporto tra il volto-ritratto e la forma essenziale del corpo. Tante polemiche, la paura che la statua fosse usata dai clochard come riparo hanno dimostrato come il sostegno all’accoglienza sia solo un tema di facciata.

Ci si mise anche la polemica interna vaticana tra i monsignori Bertone e Ravasi, segretario di Stato e capo del pontificio Consiglio della cultura.

Monsignor Ravasi, cui non era stato mostrato altro se non un primo disegno, si trovò in difficoltà con chi pretendeva un ritratto più verosimile. Anche se Giovanni Paolo II mi ha fatto Accademico della Pontificia Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi del Pantheon, l’ho visto solo due volte. Era chiaro però che non potevo rifarmi al bozzetto preparato dallo scenotecnico Gianni Gianese o ad esempi come il Giovanni Paolo II naturalistico di Stefano Pierotti (statua che dal 2009 è posta davanti all’ingresso principale del Policlinico Gemelli, ndr). La mia prima idea era un grande viso a bassorilievo, una sorta di maschera di Agamennone gigante che appunto non piacque a Bertone. L’Osservatore Romano poi mi ha riconosciuto il merito di uscire dall’iconografia papale per andare verso la modernità. L’immagine storicamente vera ma diversa dal solito di Wojtyla era solo un punto di partenza.

Il Papa che nel 1993 avvolse scherzosamente con il mantello un bambino seduto accanto a lui.

Dovevo combinare natura ritrattistica e l’idealità simbolica che solitamente rappresento andando su linee minimaliste di pura forma. L’esito finale è un connubio di figura e astrazione; di simbolico e figurativo, il volto - ritratto ed il corpo simbolico nel gesto cinetico di mantello e corpo pneumatici. Una conversazione tra aspetti che torna anche nel viso di Giovanni Paolo II, sopra vigorosa, e sotto piegata nella smorfia della bocca della malattia e dell’Alzheimer.

Al tuo studio si arriva passando per San Lorenzo tra il ritratto dei fan a Sabina Guzzanti ed il Cinema Palazzo.

Un quartiere folkloristico, rimasto di facciata come nella via Volsci degli anni Settanta, nido di Autonomia Operaia. La realtà è che è sempre più difficile lavorare qui. Alla fondazione Cerere, dove si trova il mio studio, gli artisti si sono dimezzati. Qui il metro quadro sta ai 20mila euro e oltre. È difficile far arrivare le forniture, i marmi ed ogni altra cosa. Il gioco dei radical chic viene in fondo pagato dal territorio. Personalmente sto per andarmene in Toscana, dove si è più a ridosso al lavoro degli artigiani ed alle materie prime. Il 3 luglio però sarò a Roma per “Nada y Todo” al Tempietto del Bramante, in collaborazione con l’Accademia reale spagnola. È una mostra su diversi elementi, marmo, vetro, acqua e luce portati in omaggio a San Giovanni della Croce.

Anche l’arte è una filiera economica?

Certo. Torno da tre anni passati quasi esclusivamente in giro per il mondo, dove ho potuto apprezzare l’impostazione industriale e manageriale che ha il supporto al patrimonio artistico. Per non parlare del regime fiscale di settore che invoglia acquirente, fruitore e produttore. È inutile agevolare il mecenatismo quando solo l’avvicinarsi all’opera d’arte rende vittima di persecuzioni fiscali. Il che spiega anche il basso valore del fatturato dell’arte contemporanea (3 miliardi), che non comprende una cifra non troppo diversa di sommerso. Arti visive, danza, letteratura, poesia sono lasciate alle semplici iniziative individuali. Le burocrazie competenti sono gestite da persone non adeguate, che assistono, indifferenti, ad un generale insensato e stupido masochismo. Invece l’Italia e Roma potrebbero avviare collaborazioni a tutto campo per gestire l’arte in modo risoluto ed efficace. Per l’arte è venuto il momento di pretendere Todo, per non finire Nada.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:19